LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Sezione lavoro Composta dagli Ill.mi signori magistrati: dott. Giuseppe Bronzini - presidente; dott. Paolo Negri Della Torre - consigliere; dott. Federico Balestrieri - consigliere; dott. Federico De Gregorio - relatore consigliere; dott. Antonella Pagetta - consigliere, ha pronunciato la seguente Ordinanza interlocutoria sul ricorso 3038-2015 proposto da: P.M. domiciliato in Roma piazza Cavour presso la cancelleria della Corte Suprema di Cassazione, rappresentato e difeso dall'avvocato Luciano Della Vite; Ricorrente contro A.T.B. Servizi S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via di Ripetta n. 22, presso lo studio dell'avvocato Gerardo Vesci, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati Matteo Golferini, Margherita Caggese; Controricorrente avverso la sentenza n. 327/2014 della Corte d'appello di Brescia, depositata il 10 luglio 2014 R.G.N. 60/2013; Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19 febbraio 2019 dal consigliere dott. Federico De Gregorio; Udito il pubblico ministero in persona del sostituto procuratore generale dott. Carmelo Celentano che ha concluso per il rigetto del ricorso; Udito l'avvocato Sergio Gandi per delega verbale avvocato Margherita Caggese. Fatti di causa Il sig. M.P., dipendente di ATB Servizi S.p.a., concessionaria di servizio pubblico di trasporto, chiese al giudice del lavoro di Bergamo di' essere reintegrato nel profilo professionale di addetto all'esercizio con parametro retributivo 193 e di dichiarare la cessazione di ogni effetto della proroga del termine previsto per gli aumenti retributivi contrattualmente previsti, il tutto con decorrenza 23 luglio 2009, data in cui l'azienda gli aveva inflitto la sanzione disciplinare della retrocessione di due gradi nella carriera (percio' retrogradazione al parametro retributivo 175 e assegnazione del profilo di operatore di esercizio), prevista dall'art. 37 allegato A al regio decreto n. 148/1931, nonche' la correlata sanzione di cui all'art. 44 dello stesso regio decreto, ossia in aggiunta la «proroga del termine normale per l'aumento della retribuzione, per la durata di mesi sei, con riguardo a tutti gli aumenti retributivi spettanti dopo quello che sara' per primo ritardato a seguito dell'applicazione della retrocessione disposta» con lo stesso provvedimento. Il giudice adito, ritenuto che l'attore non contestava il merito della sanzione inflittagli, ma quale unico motivo della domanda la legittimita' costituzionale delle citate norme di cui al suddetto decreto 148, per contrasto con gli articoli 3 e 35 della Costituzione, rigettava il ricorso, ritenendo la manifesta infondatezza della prospettata questione di legittimita' costituzionale. Il P. impugnava la suddetta pronuncia, sostenendo l'erroneita' della decisione. La societa' convenuta resisteva all'interposto gravame, spiegando a sua volta appello incidentale, chiedendo la riforma della sentenza impugnata nella parte in cui aveva respinto l'eccezione di inammissibilita' della domanda, dal momento che l'unica censura svolta dal lavoratore in ordine alle sanzioni irrogategli era l'eccezione d'incostituzionalita'. La Corte d'appello di Brescia con sentenza n. 327 in data 27 giugno 2014, pubblicata il successivo 10 luglio, rigettava l'appello principale e quello incidentale, dichiarando compensate le spese relative al secondo grado del giudizio. La Corte territoriale osservava che, come correttamente gia' rilevato dal primo giudicante, il lavoratore non aveva contestato la sussistenza dell'illecito disciplinare (fatto accaduto il 6 novembre 2008 nell'esercizio delle mansioni di controllore, per cui il P. era stato rinviato a giudizio, con successiva applicazione della pena ex art. 444 del codice di procedura penale, in ragione di mesi undici di reclusione), ma aveva chiesto la rimozione degli effetti delle anzidette sanzioni, sostenendo, incidentalmente, l'illegittimita' delle stesse, siccome risultando incostituzionali le norme che le prevedevano. La corte d'appello, quindi, condivideva la qualificazione della domanda negli anzidetti termini, per cui la stessa era stata ritenuta ammissibile. Infatti, l'accertamento dell'illegittimita' costituzionale delle norme di cui al regio decreto n. 148 del 1931 non era il petitum diretto della domanda, ma lo strumento per ottenere quel determinato petitum, inteso come il bene della vita che si intende conseguire, ossia la reintegrazione del profilo professionale di addetto all'esercizio con parametro retributivo 193 e la cessazione della proroga del termine per l'aumento stipendiale. Tanto bastava, ad avviso della Corte bresciana, per ritenere l'infondatezza dell'appello incidentale. Non essendo stata riproposta la questione della giurisdizione, occorreva quindi passare al merito del gravame, pero' giudicato anch'esso infondato, condividendo la corte distrettuale le argomentazioni del giudice di primo grado in ordine alla assoluta specialita', sia pure residuale, della disciplina dettata dal suddetto regio decreto, di modo che non sarebbe manifestamente irragionevole o palesemente arbitrario il mantenimento di un regime speciale riservato agli autoferrotranvieri. In particolare, si richiamava l'insegnamento della Corte costituzionale, la quale in relazione all'art. 3 della Costituzione aveva chiarito che il rapporto di lavoro degli addetti ai pubblici servizi di trasporto in regime di concessione costituisce una forma intermedia tra l'impiego pubblico e quello privato ed e' appunto assoggettato alla normativa speciale di cui al regio decreto, giusta la sentenza n. 190 del 2000 pronunciata dalla Consulta, nonche' le ordinanze della stessa n. 439 del 2002 e n. 301 del 2004. La specialita' del rapporto era giustificata dall'interesse collettivo, ritenuto preminente, al buon funzionamento e all'efficienza del servizio pubblico del trasporto, avuto riguardo alle variegate multiformi tipologie di gestione da parte di aziende autonome o da parte di soggetti privati, tutti in regime di concessione e con poteri derivanti dal trasporto di concessione in ordine anche alla sicurezza e alla polizia di trasporti. Alla luce della specialita' del rapporto, era dunque condivisibile l'affermazione del primo giudicante, secondo cui proprio la permanenza nell'ordinamento della specialita' del rapporto faceva si' che la scelta discrezionale del legislatore di non intervenire, modificandola, sulla speciale regolamentazione delle sanzioni disciplinari per i dipendenti delle aziende - in mano pubblica o privata - di trasporto non era censurabile sul piano costituzionale, non essendo manifestamente irragionevole o palesemente arbitraria. Non residuava, quindi, alcuno spazio per un paragone comparativo tra la disciplina in esame, ed in particolare la parte normativa concernente le anzidette sanzioni, con quella di lavoratori subordinati privati o dei lavoratori pubblici. Infatti, il principio di eguaglianza ex art. 3 della Costituzione non era invocatile proprio per la diversita' della materia in questione, inerente al rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri, rispetto al rapporto di lavoro di diritto privato e al rapporto di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni. Ed invero non era prospettabile una violazione dell'art. 3, occorrendo in proposito soltanto lo stesso trattamento per le situazioni identiche, ma non anche parita' di trattamento riguardo a situazioni diverse. Secondo la corte territoriale, era altresi' manifestamente infondata l'eccezione d'incostituzionalita' dell'anzidetta normativa in relazione all'art. 35, comma primo, della Costituzione. Infatti, la questione andava esaminata non in relazione al diritto alla qualifica e alla violazione dello stesso, bensi' sotto il profilo della legittimita' costituzionale di una sanzione disciplinare comportante, in funzione punitiva, una retrocessione in carriera e quindi una sanzione diversa da quelle prevista dalla legge nell'ambito degli altri rapporti di lavoro, pubblici e privati, retrocessione in carriera, la quale ad ogni modo non restava bloccata, potendo comunque progredire. Ad avviso della Corte, inoltre, l'art. 35 della Costituzione, tutelando il diritto, alla formazione e alla elevazione professionale dei lavoratori, non aveva introdotto limiti al legislatore in materia di sanzioni disciplinari, di modo che il suo richiamo non appariva pertinente. Era chiaro, poi, che la specialita' del rapporto comportava diverso trattamento, anche sotto tale profilo, rispetto ai dipendenti privati e pubblici. La corte di merito condivideva anche l'affermazione del primo giudicante, secondo cui, pur volendosi ipotizzare una limitazione del diritto quesito alla qualifica, si tratterebbe comunque di una limitazione temporale, visto che l'art. 44, ultimo comma, del citato regio decreto n._ 148, prevedeva la possibilita' di ottenere la reintegrazione, trascorso almeno un anno dalla retrocessione, per gli agenti ritenuti meritevoli, donde la restituzione a ciascuno della qualifica in precedenza rivestita, fermi restando gli effetti della pena accessoria della proroga e restando pure salva la facolta' dell'azienda di farne cessare la ripercussione ai sensi del terzo e quarto comma dell'art. 43. Ne' poteva assumere rilevanza che il giudizio sulla meritevolezza fosse riservato al datore di lavoro, laddove in caso di ingiustificata negazione dell'istanza di reintegrazione restava comunque assicurato il diritto del lavoratore di rivolgersi al giudice per far valere le proprie ragioni. Infine, la corte distrettuale rilevava come la retrocessione fosse meno afflittiva del licenziamento o, con riferimento agli autoferrotranvieri, della destituzione, sanzione la cui legittimita' era fuori discussione. Avverso la succitata sentenza d'appello ha proposto ricorso per cassazione il sig. M.P. come da atto notificato il 5 gennaio 2015, affidato a quattro motivi, cui ha resistito A.T.B. Servizi S.p.a., mediante controricorso notificato a mezzo p.e.c. in data 11 febbraio 2015, nonche' tramite ufficiale giudiziario in data 12-13 febbraio 2015, in seguito illustrato da memoria depositata in vista dell'adunanza in camera di consiglio fissata per il giorno 17 ottobre 2018. All'esito di detta adunanza, quindi, il collegio ha ritenuto necessaria la trattazione in pubblica udienza come da relativa ordinanza. Ragioni dell'ordinanza Con il primo motivo, formulato ai sensi dell'art. 360, comma I, n. 3 del codice di procedura civile, il ricorrente ha denunciato la violazione degli articoli 2, 3, 4 e 35, comma I della Costituzione, la cui disciplina si assume in contrasto con quella invece dettata dagli articoli 37, comma I, n. 5, e 44 dell'allegato A al regio decreto n. 148 del 1931. Violazione diritto al lavoro (che si attua non solo attraverso la salvaguardia delle posizioni economiche, ma anche e soprattutto con la garanzia di diritti fondamentali inerenti al rapporto di lavoro, tra i quali senz'altro pure il diritto alla qualifica. La qualifica in realta' costituisce il criterio di identificazione del tipo di prestazione espletabile dal lavoratore e discende congiuntamente sia dall'astratta formazione tecnico professionale del medesimo, sia dal complesso delle concrete esperienze lavorative maturate nel corso della sua attivita'. In quanto espressione delle capacita' tecnico professionali del lavoratore la qualifica appare, quindi, non solo connaturata alla qualita' di lavoratore subordinato, ma addirittura strettamente legata alla persona del lavoratore, poiche' esprime appunto il livello di esperienze da lui personalmente maturato e formalmente riconosciutogli nel corso del rapporto). Secondo il ricorrente, proprio per l'essenziale rilievo che la qualifica riveste nel rapporto di lavoro e per l'ontologica connessione di essa con la personalita' del lavoratore, appare chiaramente ricompresa nel concetto di tutela del lavoro di cui all'art. 35 della Costituzione anche la tutela della professionalita' maturata dal lavoratore e divenuta parte di esso, il cui relativo diritto si presenta quale diritto essenziale della persona del lavoratore, come principio generale dell'ordinamento del lavoro. La tutela di lavoro deve estrinsecarsi anche nella corretta ed equa utilizzazione delle capacita' lavorative del prestatore e nella garanzia di riconoscimento della qualifica, la quale e' soggetta a variazioni in relazione alla modificazione della stessa capacita' lavorativa del prestatore, ma non per motivi puramente disciplinari. Poiche' la qualifica non costituisce di certo un beneficio accordato discrezionalmente dal datore di lavoro, ne' tantomeno un accessorio delle obbligazioni principali derivanti dal rapporto di lavoro, ma rappresenta e si identifica con la persona del lavoratore, in ciascun momento storico del rapporto considerato, individuando le qualita' essenziali e ontologiche della sua capacita' professionale e lavorativa, appare inammissibile, secondo il ricorrente, che il datore di lavoro possa, con un mero provvedimento disciplinare, privare lavoratore della capacita' lavorativa da lui raggiunta, retrocedendolo ad una qualifica inferiore, ovvero azzerando - anche attraverso ripetute retrocessioni, teoricamente possibili, secondo la normativa de qua - addirittura i progressi tecnici maturati dal dipendente. Di conseguenza, si assume da parte ricorrente, altresi', illegittima la norma di legge che possa consentire l'anzidetta privazione mediante la contestata retrocessione ad una qualifica inferiore, stante il palese contrasto con la tutela generale del lavoro di cui sopra. Del resto, una tale possibilita' appare gia' in contrasto con la disciplina ormai generalmente fissata dalla legislazione ordinaria piu' recente, rispetto a quella speciale, relativamente alla materia trattata per tutti i lavoratori subordinati in materia di qualifica e di mansioni. Infatti, l'art. 2103 del codice civile, come modificato dall'art. 13 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (ovviamente, secondo il testo nella specie ratione temporis applicabile con riferimento alla sanzione applicata il 23 luglio 2009), afferma il diritto del lavoratore a vedere sempre rispettate le mansioni e la qualifica di assunzione, ovvero quella successivamente acquisite, sancendo indirettamente la inderogabilita' in pejus del livello lavorativo raggiunto e comunque sottraendo alla sfera di efficacia dei provvedimenti disciplinari la materia della qualifica. Tale normativa costituirebbe, dunque, diretta attuazione proprio dell'art. 35 della Costituzione. D'altro canto, l'art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, sancisce che, fermo restando quanto disposto dalla legge 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro. Quindi, secondo il ricorrente, e' previsto, come principio generale dell'ordinamento in materia di lavoro, che l'unica modificazione definitiva consentita come sanzione disciplinare possa consistere nel licenziamento, quando ne ricorrano gli estremi previsti specificamente dalla relativa disciplina. La ratio delle anzidette disposizioni di legge era ravvisabile nell'esigenza di sottrarre alla disponibilita' delle parti, in particolare del datore di lavoro, la gestione della qualifica del lavoratore e cioe' della sua capacita' tecnico-professionale, che si estrinseca proprio nella qualifica, la quale progredisce con il progredire delle esperienze del lavoratore. Disparita' di trattamento Inoltre, sulla scorta della richiamata legislazione ordinaria, le disposizioni degli articoli 37, primo comma, n. 5 e 44 del regio decreto n. 148/1931, allegato A, ad avviso del ricorrente, appaiono in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, in quanto, prevedendo una regolamentazione speciale e peggiorativa delle sanzione disciplinare per i soli dipendenti delle aziende ferrotranviarie, attuano una disparita' di trattamento rispetto tutti gli altri lavoratori dipendenti, per i quali la legge non prevede e non ammette la possibilita' di una perdita della qualifica raggiunta quale particolare tipo di sanzione disciplinare. Tale diversita' di trattamento non sembra giustificabile neppure sulla base dell'asserita specialita' del lavoro dei dipendenti di aziende di trasporto, dal momento che non trova comunque fondamento in alcuna peculiarita' di tale rapporto, ma attiene invece ad un aspetto generale, quale il potere disciplinare del datore di lavoro, e alla tipologia delle sanzioni. Proprio tale tipologia non appare ragionevolmente condizionabile della specialita' del rapporto, quanto meno non al punto da consentire alla parte datoriale di incidere sulla qualifica del lavoratore e sulle corrispondenti. mansioni. Pertanto, ad avviso del ricorrente, la questione di legittimita' costituzionale dei succitati articoli 37, comma I, n. 5, e 44, non poteva dirsi manifestamente infondata, risultando la sua definizione rilevante e preliminare ai fini della decisione della controversia. D'altro canto, per diritti inviolabili dell'uomo si intendono quei diritti e quelle liberta' considerati essenziali e incancellabili, in quanto strettamente connessi alla natura umana. Come tali questi diritti sono sottratti al potere dispositivo del legislatore ordinario e oltretutto immuni anche dalle procedure di revisione costituzionale. Pure il diritto al lavoro e, di conseguenza alla qualifica e alla mansione corrispondente, andrebbe ricompreso tra i diritti inviolabili, giacche' l'attivita' lavorativa non puo' essere esaminata esclusivamente sotto il profilo dello strumento di sostentamento, ma piu' propriamente come una modalita' di manifestazione della personalita' del lavoratore; con l'ulteriore conseguenza per cui la lesione dei valori costituiti in capo al prestatore di lavoro subordinato si pone anche conflitto con le previsioni di cui all'art. 2 della Costituzione. Ne' potrebbe correttamente sostenersi che da nessuna norma costituzionale emerga espressamente un limite al potere disciplinare del datore di lavoro, avuto riguardo in primo luogo all'espressa previsione dell'inviolabilita' dei diritti dell'uomo di cui all'art. 2 della stessa Costituzione, sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalita'. Ed un primo ordine di limiti generali al potere datoriale di incidere disciplinarmente sui beni e diritti, fondamentali, materiali e morali, dell'uomo e' piu' concretamente poi individuato da tutte quelle norme che tutelano la liberta' fondamentali della persona. Tali garanzie dei diritti e delle liberta' si pongono come limiti generali non solo per il legislatore, che non puo' cancellarli, se non per particolari e tipizzate esigenze di interesse generale, ma anche per qualsiasi ordinamento privato di fonte contrattuale che voglia prevedere sanzioni a carico degli aderenti al medesimo. Anche per quanto concerne la specifica disciplina del lavoro, secondo il ricorrente, la Costituzione prevede molteplici limiti al potere datoriale, sia con riguardo agli aspetti economici che agli aspetti professionali dell'attivita' prestata dal lavoratore, dei quali taluni espressamente indicati, ma altri necessariamente impliciti per ovvie ragioni di sintesi e di stringatezza del testo costituzionale, benche' chiaramente deducibili per via interpretativa da tenore generale delle norme costituzionali. In particolare, allorche' la Costituzione esprime esigenze di tutela del lavoro, cio' implica che siano da intendersi come inammissibili e illeciti tutti i comportamenti risultanti in contrasto con tale esigenza ed illegittime quindi le norme di legge che li autorizzano. Sempre ad avviso del ricorrente, inoltre, gli articoli 37 e 44 dell'allegato A al regio decreto si pongono in netto contrasto con l'art. 4 della Costituzione, norma che riprende ampliandolo cio' che l'art. 1 della medesima sancisce quale fondamento della Repubblica. La norma, infatti, assegna al lavoro il duplice ruolo di diritto e di dovere, intesi non in senso strettamente giuridico, ma rispettivamente come un fine, cui lo Stato deve tendere, ed un dovere morale che ciascun individuo, cittadino o meno, dovrebbe adempiere, nel rispetto della liberta' della persona. Il riconoscimento del lavoro come uno dei principi fondanti della Repubblica rimanda alla funzione sociale del lavoro svolto come mezzo di produzione e di ricchezza materiale e morale per la persona, non come merce necessaria alla massimizzazione dei profitti, ne' come fattore di produzione, ma come realizzazione dell'individuo e delle sue aspirazioni materiali e spirituali. Con il secondo motivo (formulato, presumibilmente, ai sensi dell'art. 360, comma I, n. 5 del codice di procedura civile) e' stata denunciata la omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa la opinata specialita' del rapporto di lavoro in questione, relativo agli autoferrotranvieri, «problematica» da considerarsi fatto controverso e decisivo, gia' oggetto di discussione tra le parti. Si contesta la motivazione fornita dai giudici di merito, secondo cui non sussiste il paventato dubbio di legittimita' costituzionale, attesa la assoluta specialita', sia pure residuale, della disciplina contenuta nel citato regio decreto, trattandosi in effetti ad avviso del ricorrente di affermazioni tralaticie, che non hanno offerto alcuna plausibile spiegazione circa le ragioni dell'asserita specialita' caratterizzante il rapporto degli autoferrotranvieri, e del perche' la stessa dovrebbe giustificare una cosi' stridente disparita' di trattamento, rispetto ad altre categorie di lavoratori, con riguardo ad un aspetto di carattere generale quale il potere disciplinare del datore di lavoro. In effetti, la disciplina dettata dai suddetti articoli 37 e seguenti si assume lontanissima da quella prevista dall'art. 7 dello Statuto dei lavoratori e il mantenimento di sanzione disciplinare definitiva, come la retrocessione, non si fonda e non si' giustifica su alcuna peculiarita' del rapporto considerato. Anche a voler ritenere che il rapporto con gli addetti ai pubblici servizi di trasporto costituisca una forma intermedia tra l'impiego pubblico a quello privato, non e' possibile reperire una sola plausibile motivazione per il mantenimento nell'ordinamento giuslavoristico di una sanzione quale la retrocessione. La quale non e' neppure menzionata nel codice di disciplina previsto per i dipendenti della pubblica amministrazione. Se anche fosse vero che la specialita' del rapporto e' giustificata dall'interesse collettivo al buon funzionamento del servizio pubblico di trasporto, cio' non potrebbe, comunque, legittimare la permanenza di una sanzione, dal permanente carattere afflittivo come la retrocessione, espunta invece dalla vigente legislazione nei confronti dei pubblici dipendenti. Anzi, proprio l'odiosa e irragionevole disparita' di trattamento in danno dei lavoratori del comparto autoferrotranvieri si pone in contrasto, evidente e incontrovertibile, con l'art. 3 della Costituzione. Infatti, nel settore dei trasporti di lavoro del personale civile, pubblico e privato, la sanzione della retrocessione costituisce un unicum che penalizza esclusivamente di autoferrotranvieri. Il trattamento deteriore in questione non risulta previsto per i ferrovieri o gli autoferrotranvieri internavigatori delle autolinee private. Rispetto a questi ultimi l'art. 66 della C.C.N.L. 23 luglio 1976 prevede le sanzioni del rimprovero, della multa, della sospensione del licenziamento, ma non la retrocessione. Tale misura non e' neanche prevista per i dipendenti delle Ferrovie dello Stato (per i quali il C.C.N.L. 6 febbraio 1998 all'art. 95 contempla esclusivamente il rimprovero scritto e verbale, la multa, la sospensione e il licenziamento), ne' per i dipendenti delle aziende di trasporto merci come da art. 31 C.C.N.L. 22 luglio 1991. In realta' la contestata sanzione punitiva, secondo il ricorrente, era stata palesemente tratta dall'armamentario sanzionatorio previsto per i militari, per cui tuttavia non sussiste piu' alcuna ragione legittimante l'equiparazione tra appartenenti alle Forze armate e i dipendenti del settore autoferrotranviario. Oltretutto la materia disciplinare era l'unica parte normativa sopravvissuta alle modifiche, introdotte successivamente, che avevano eliminato ogni diversificazione di trattamento tra i lavoratori. Tuttavia, nonostante la situazione sopra delineata circa il dubbio fondato di legittimita' costituzionale delle anzidette norme residuali, la corte d'appello aveva ritenuto che la violazione dell'art. 3 della Costituzione non avrebbe avuto alcuna ragion d'essere. Per contro, una volta ammesso che a colpi di contrattazione collettiva e sulla base di ormai consolidati orientamenti giurisprudenziali la maggior parte delle disposizioni della legge speciale era stata travolta, ne derivava inevitabilmente la necessita' di una completa parificazione, anche sul piano disciplinare, dei lavoratori del comparto autoferrotranvieri ai colleghi dell'analogo settore pubblico e privato. A mero titolo esemplificativo, infatti, parte ricorrente ha segnalato che i ferrovieri, a suo tempo anch'essi sottoposti alla disciplina dettata dal suddetto regio decreto, sono rimasti soggetti alla sanzione della retrocessione soltanto fino al momento della privatizzazione delle Ferrovie dello Stato e all'adozione di criteri dettati, in tema di provvedimenti disciplinari, della legge n. 300 del 1970. Non si vedeva dunque la ragione per la quale una punizione cosi' afflittiva e ingiusta dovesse permanere con riguardo soltanto ai dipendenti di aziende speciali, come la A.T.B. Servizi, la quale in quanto societa' per azioni aveva adottato pienamente il regime privatistico, tanto nei rapporti con il personale quanto nel relazionarsi con i soggetti terzi, a conferma dunque che anch'essa operava sul mercato del trasporto in assenza di qualsivoglia privilegio o primato legato ad una sua presunta genesi pubblica (residuo di potesta' e poteri pubblicistici). Con il terzo motivo il ricorrente ha denunciato, ex art. 360, n. 3 del codice di procedura civile, la violazione dell'art. 102, comma primo, lettera B del decreto legislativo n. 112/1998, nonche' dell'art. 7 della legge n. 300/1970. Il decreto legislativo n. 112 del 1998 in attuazione della cosiddetta riforma Bassanini aveva previsto la soppressione delle norme relative alla nomina dei consiglieri disciplina. Anche la Regione Lombardia era intervenuta sul punto con la legge regionale n. 1 del 2000, sopprimendo le funzioni amministrative sino ad allora per la nomina dei componenti dei consigli di disciplina delle aziende di trasporto pubblico locale. Il Consiglio di Stato con il parere reso in data 19 aprile 2000 aveva, inoltre, sostenuto che l'intervenuta modifica normativa aveva comportato non solo l'abolizione dei consigli di disciplina, ma anche una sostanziale abrogazione della normativa pseudo-pubblicistica dedicata alle sanzioni disciplinari per gli autoferrotranvieri, sostanziale e procedurale, sicche' aveva opinato nel senso che non vi fossero piu' ostacoli alla piena applicazione in tale ambito della disciplina di diritto comune dettata dalla legge n. 300 del 1970. Quanto, poi, alla limitazione temporanea della sanzione, come sul punto ritenuto dalla corte d'appello, il ricorrente ha osservato che in realta', a mente dell'art. 44, ultimo comma del suddetto allegato A al regio decreto, il prestatore puo' ottenere la restituzione della qualifica rivestita prima della retrocessione, purche' sia trascorso almeno un anno dal provvedimento. Trattasi, pero', di mera eventualita' subordinata ad un discrezionale giudizio di meritevolezza da parte dell'azienda. Alla medesima valutazione del datore di lavoro e' subordinato anche l'eventuale accantonamento della proroga del termine per l'aumento dello stipendio, pena accessoria usualmente inflitta unitamente alla retrocessione, di modo che qualora l'azienda non reputi il dipendente meritevole della reintegrazione nella qualifica, la sanzione opera con effetti permanenti e definitivi. Proprio questa disdicevole situazione si era verificata nel caso di specie, poiche' il P. si era visto reiteratamente respingere le istanze indirizzate alla societa' resistente, volte ad ottenere la restituzione allo stato precedente. Vi era, d'altro canto, da dubitare che, ove il datore di lavoro nell'esercizio del potere discrezionale riconosciutogli dal regio decreto negasse la reintegrazione nell'originaria qualifica, fosse possibile per la parte danneggiata adire il giudice onde far valere le proprie ragioni, essendo ogni relativa scelta rimessa alle insindacabili determinazioni della stessa parte datoriale. Con il quarto motivo di ricorso e' stata dedotta la omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza impugnata in ordine alla dedotta violazione degli articoli 2 e 4 della Costituzione, «problematica da considerarsi fatto controverso e decisivo per il giudizio, gia' oggetto di discussione tra le parti» - Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2103 del codice civile e dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970, poiche' soltanto per i ferrotranvieri in base alla suddetta normativa vi sarebbe la possibilita' di una definitiva perdita della qualifica raggiunta, quale particolare sanzione disciplinare in base alla denunciata normativa di cui al regio decreto, in violazione dunque ed ancora pure dell'art. 3 della Costituzione. Non era stato esaminato, inoltre, dalla corte d'appello il profilo inerente alla violazione degli articoli 2 e 4 della Costituzione, donde il difetto di motivazione. Tanto premesso, appaiono in larga parte giustificate le doglianze prospettate da parte ricorrente, per quanto concerne i rilevati dubbi di legittimita' costituzionale, che nei seguenti limiti risultano indubbiamente rilevanti nel caso di specie in ordine alla definizione della controversia di cui e' processo. Ed invero, pur indipendentemente da talune errate rubricazioni sub art. 360 del codice di procedura civile, da parte ricorrente, che ad ogni modo non precludono al giudicante la corretta qualificazione sotto il profilo giuridico delle questioni sostanziali prospettate, le stesse meritano un approfondito vaglio di merito da parte del comperate giudice delle leggi, con specifico riferimento alla contestata sanzione della retrocessione, la quale non solo appare inattuale, a distanza di circa 88 anni dal varo dell'ormai remoto regio decreto n. 148/1931, ma altresi' irragionevole per effetto delle novita' politico-sociali e normative intervenute nelle more del lungo tempo trascorso, caratterizzate essenzialmente dal mutato regime costituzionale, laddove i principi fondanti (segnatamente quelli di cui ai primi tre articoli dalla Costituzione) risultano poco compatibili con una sanzione disciplinare punitiva e mortificante, di durata notevole quanto meno nel minimo, che trae origine evidentemente dal risalente inquadramento militare, degli autoferrotranvieri, pero' da lustri scomparso. Va, inoltre, rilevato che nella specie deve ritenersi pacificamente operante la giurisdizione ordinaria, visto che le pronunce di merito non risultano essere state impugnate sul punto, con conseguente formazione di giudicato al riguardo, peraltro in linea con la giurisprudenza questa corte ormai consolidata in proposito (cfr. in part. Cass. sez. un. civ., sentenza n. 460 del 13 gennaio 2005), secondo cui le controversie in materia di sanzioni disciplinari per gli addetti al servizio pubblico di trasporto in concessione, attribuite al giudice amministrativo dall'art. 58 del regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148, allegato A), appartengono alla cognizione del giudice ordinario, stante l'implicita abrogazione per incompatibilita', sin dall'operativita' della disposizione originaria dell'art. 68 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, della persistente giurisdizione del giudice amministrativo prefigurata dal citato art. 58 (conformi Cass. sez. un. n. 1728 del 28 gennaio 2005, n. 6999 del 5 aprile 2005, n. 9939 del 12 maggio 2005, n. 613 del 15 gennaio 2007, 7939 del 27 marzo 2008. Cfr. ancora Cass. sez. un. civ. n. 15917 del 22 aprile-13 giugno 2008, che nel confermare la giurisdizione ordinaria ribadiva quanto statuito dalle Sezioni unite con ordinanza n. 464 del 13 gennaio 2005, nel senso che «le controversie in materia di sanzioni disciplinari per gli addetti al servizio pubblico di trasporto in concessione, attribuite al giudice amministrativo dal regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148, art. 58, allegato A), appartengono alla cognizione del giudice ordinario, stante l'implicita abrogazione per incompatibilita', sin dall'operativita' della disposizione originaria del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, art. 68, della persistente giurisdizione del giudice amministrativo prefigurata dal citato art. 58», in base a molteplici argomentazioni: in primo luogo, la progressiva privatizzazione del settore dei trasporti pubblici, realizzata con la trasformazione dell'azienda delle Ferrovie dello Stato prima in ente pubblico economico e successivamente in societa' per azioni, che ha marcatamente evidenziato gli elementi di specialita' «residuale» del regime disciplinato dal regio decreto n. 148 del 1931; inoltre un significativo momento del lungo processo di delegificazione di quest'ultima disciplina e' contrassegnato dalla legge 12 luglio 1988, n. 270, il cui art. 1, comma 2, prevedeva che, a partire dal novantesimo giorno dalla sua entrata in vigore, «le disposizioni contenute nel regolamento allegato al regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148, ivi comprese le norme di legge modificative, sostitutive od aggiuntive a tale regolamento non potevano essere derogate dalla contrattazione nazionale di categoria ed i regolamenti d'azienda non potevano derogare ai contratti collettivi». «La tendenza verso un graduale avvicinamento della disciplina del rapporto di lavoro in questione a quella del rapporto privato trovo' il suo culmine nella legge 23 ottobre 1992, n. 421, la quale delego' il Governo alla "razionalizzazione e revisione delle discipline in materia di sanita', di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale". Tale obiettivo fu realizzato - gia' con il primo dei decreti delegati (decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29) - attraverso la graduale soggezione dei rapporti alle norme di diritto civile ed alla contrattazione collettiva e individuale, nonche' alla giurisdizione del giudice ordinario "salvi, per cio' che attiene ai rapporti di pubblico impiego, i limiti collegati al perseguimento degli interessi generali cui l'organizzazione e l'azione delle pubbliche amministrazioni sono indirizzati". In particolare, quanto alla materia disciplinare, il generale principio dell'assoggettamento alle norme contenute nella legge n. 300 del 1970, art. 7, ed alla contrattazione collettiva fu realizzato attraverso l'abrogazione del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, articoli 100-123, da parte della legge 15 marzo 1997, n. 59. Gia' a questo stadio dell'evoluzione normativa puo' dirsi che la generale attrazione del pubblico impiego - salvo specifiche eccezioni - nell'area del diritto privato e il suo assoggettamento alla disciplina generale del lavoro privato, minavano fortemente le ragioni della permanenza della specialita' del regime disciplinare configurato dall'antica legge del 1931. Per altro verso, l'avvenuta completa "devitalizzazione" dell'art. 58, ha trovato una ennesima conferma nel decreto legislativo del 31 marzo 1998, n. 112 - attuativo della delega disposta dalla legge 15 marzo 1997, n. 59, sul conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali - il cui art. 102, lettera b), ha soppresso le funzioni amministrative relative alla nomina dei consigli di disciplina. In proposito, non puo' non convenirsi con quanto sostenuto dall'adunanza plenaria del Consiglio Stato, nel parere reso in data 19 aprile 2000 (richiamato nel giudizio davanti alla Corte costituzionale conclusosi con l'ordinanza n. 301 del 2004) nel senso che l'effetto abrogativo della norma da ultimo citata non puo' limitarsi alla caducazione delle sole norme procedimentali sulla nomina e composizione dei consigli di disciplina e che la soppressione dei consigli di disciplina ha confermato l'avvenuta abrogazione implicita delle norme dei regio decreti che postulano l'operativita' di tali organi, inclusa la devoluzione alla giurisdizione amministrativa dei ricorsi avverso le loro decisioni. Ma il processo di privatizzazione (rectius "contrattualizzazione") dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni aveva gia' in precedenza registrato un decisivo intervento anche in materia di competenza a decidere delle relative controversie, con la conseguenza che anche questo versante ha contribuito a travolgere l'assetto complessivo del regio decreto del 1931; sottraendo sin da allora ogni residuo spazio di operativita' dell'art. 58. Ed infatti - come gia' si e' rilevato piu' sopra - il trasferimento dal giudice amministrativo a quello ordinario del contenzioso dell'"ex pubblico impiego", gia', anticipato dalla legge delega del 1992, e' stato introdotto, come regime generale, gia' con il decreto legislativo n. 29 del 1993, art. 68, comma 1, ai sensi del quale venivano "in ogni caso devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice dal lavoro, le controversie attinenti al rapporto di lavoro in corso, in tema di 1) sanzioni disciplinari", mentre restavano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie relative ai rapporti di impiego del personale di cui all'art. 2, commi 4 e 5. Tale norma - destinata, peraltro ad operare "a partire dal terzo anno successivo alla data di entrata in vigore" del medesimo decreto e, comunque "non prima della fase transitoria di cui all'art. 72" (art. 68, comma 4) - e' stata riprodotta, con qualche modifica (non rilevante ai fini che interessano in questa sede) dal decreto legislativo n. 546 del 1993, art. 33, poi dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, art. 29, quindi, dal decreto legislativo n. 387 del 1998, art. 18, e, finalmente dal decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, art. 63 (testo unico del pubblico impiego). Se ne puo' trarre, dunque, la conclusione che sin dall'operativita' della disposizione ordinaria del 1993, deve ritenersi compiuta l'abrogazione implicita del regio decreto n. 148 del 1931, art. 58, oggetto del presente giudizio, proprio perche' l'indubbia portata generale della disposizione del 1993 non avrebbe consentito piu' al giudice amministrativo, trascorso l'indicato periodo transitorio, di occuparsi di controversie di lavoro se non nei casi espressamente tenuti fuori dal processo di privatizzazione (art. 3 del testo unico citato). A fronte della chiara ed univoca evoluzione della disciplina, complessiva del rapporto di pubblico impiego, diventa, d'altro canto piu' difficile sostenere ancora la specialita' del rapporto degli autoferrotranvieri. Tale specialita', vistosamente sbiadita dai numerosi interventi normativi appena rievocati, appare ormai in tutta la sua anomalia, proprio sul terreno della giurisdizione poiche' la competenza del giudice amministrativo a decidere delle controversie relative a quei rapporti di lavoro trarrebbe la sua ragione proprio in quella specialita' che invece, e' ormai venuta del tutto meno. E' pure il caso di aggiungere che non sarebbe comprensibile sottovalutare il descritto processo evolutivo subito da una disciplina che - concepita in epoca precostituzionale - non puo' piu' essere interpretata senza tener conto del mutato sistema di riferimento nel quale l'art. 58, e' venuto ad operare, nel corso di oltre settanta anni: con la conseguenza che non appare piu' possibile limitarsi a prendere atto di una mancata espressa abrogazione di tale norma. ...»). Di conseguenza, possono dirsi superate anche tutte le questioni connesse alla giurisdizione, gia' ritenute non fondate o inammissibili dalla Corte costituzionale, anche con specifico riferimento alla sanzione della retrocessione, di cui e' invece causa in questo processo, sulla quale peraltro non consta alcuna espressa pronuncia del giudice delle leggi circa la sua conformita', o meno, agli anzidetti principi della Carta fondamentale (cfr. in part. Corte costituzionale n. 458 del 1992: secondo l'indirizzo giurisprudenziale vigente, alla stregua dell'art. 6 della legge 12 giugno 1990, n. 146, per i ricorsi delle organizzazioni sindacali volti ad ottenere non solo la repressione del comportamento antisindacale ma anche la rimozione dei provvedimenti concretanti il detto comportamento - ad es. sanzione disciplinare della retrocessione - la giurisdizione spetta al T.A.R. Pertanto, essendo il difetto di giurisdizione del pretore - che, adito nel caso di specie, aveva promosso l'incidente di costituzionalita' - rilevabile «ictu oculi», la sollevata questione doveva essere dichiarata manifestamente inammissibile. V. parimenti Corte costituzionale n. 60 del 1994: il principio, piu' volte ribadito, per cui nel giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale, una questione gia' sottoposta, come nel caso esaminato, alla Corte, non puo' essere nuovamente sollevata dallo stesso giudice nel corso dello stesso giudizio non consente di pronunciarsi una seconda volta sulla questione di legittimita' costituzionale, in riferimento agli articoli 3 e 35, primo comma della Costituzione, degli articoli 37, primo comma, n. 5, e 44 del regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148, nella parte in cui prevedono, per i lavoratori dipendenti di aziende di trasporto, la sanzione disciplinare della retrocessione. Ne' rilevava in contrario il motivo che, riguardo al merito della questione - peraltro gia' dichiarata dalla Corte, nel precedente giudizio, manifestamente inammissibile con l'ordinanza n. 458 del 1992, perche' proposta da giudice ordinario in materia devoluta, dall'art. 58 dell'allegato A del regio decreto n. 148, alla giurisdizione amministrativa - era stato prospettato dal giudice rimettente, secondo cui l'ente convenuto, nella specie, era una privata societa' per azioni, giacche' le norme del citato allegato A si applicano al personale dei pubblici servizi di trasporto anche se esercitati dall'industria privata. Cfr. ancora l'ordinanza n. 301 del 2004, con la quale veniva dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale, sollevata in relazione agli articoli 3 e 24 della Costituzione, dell'art. 58, allegato A) del regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148, nella parte in cui risultava all'epoca devoluta al giudice amministrativo, anziche' a quello ordinario, la cognizione delle controversie in materia di sanzioni disciplinari degli autoferrotranviari, essendo rimasti immutati i presupposti, di diritto e di fatto, in base ai quali era stata ritenuta non censurabile, sul piano costituzionale, la scelta operata dal legislatore, nell'ambito della discrezionalita' spettategli in tema di ripartizione della giurisdizione ordinaria ed amministrativa, di non intervenire, modificandola, sulla speciale regolamentazione di cui e' causa, non essendo manifestamente irragionevole o palesemente arbitraria). D'altro canto, la controversia di cui e' causa nemmeno appare risolvibile mediante una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa in argomento, stante la sua inequivoca portata testuale, a fronte della quale l'organo giudicante e' tenuto ad osservarla, salvo il potere di sollevare in via incidentale la questione d'illegittimita' costituzionale, come appunto nel caso di specie. Per di piu' il legislatore, sebbene con eccentrica tecnica normativa, ha di recente mostrato di voler ripristinare, indistintamente, il vetusto regio decreto in questione, senza quindi nemmeno considerare l'evoluzione normativa stratificatasi in materia nel corso degli anni, secondo la corrispondente sua interpretazione giurisprudenziale, con conseguente residuale vigenza del medesimo originario testo del decreto, segnatamente in campo giuslavoristico. Infatti, il decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 2017, n. 96, aveva disposto (con l'art. 27, comma 12-quinquies - misure sul trasporto pubblico locale) che «Il regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148, la legge 24 maggio 1952, n. 628, e la legge 22 settembre 1960, n. 1054, sono abrogati, fatta salva la loro applicazione fino al primo rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro di settore e, comunque, non oltre un anno dalla data di entrata in vigore del presente decreto». Tuttavia, il decreto-legge 20 giugno 2017, n. 91 (Disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2017, n. 123 (in Gazzetta Ufficiale 12 agosto 2017, n. 188, in vigore dal 13 agosto 2017) all'art. 9-quinquies (Modifica all'art. 27 del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50) ha diversamente disposto, stabilendo che «1. All'art. 27 del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 2017, n. 96, il comma 12-quinquies e' abrogato». Deve, pertanto, ritenersi tuttora in vigore ed applicabile nella fattispecie qui in esame il regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148, che nell'allegato A all'art. 37 elenca «Le punizioni che si possono infliggere agli agenti»: 1° la censura, che e' una riprensione per iscritto; 2° la multa, che e' una ritenuta dello stipendio o della paga; 3° la sospensione dal servizio, che ha per effetto di privare dello stipendio o paga l'agente che ne e' colpito, per una durata che puo' estendersi a quindici giorni od, in caso di recidiva entro due mesi, fino a venti giorni; 4° la proroga del termine normale per l'aumento dello stipendio o della paga, per la durata di tre o sei mesi od un anno per le aziende presso le quali siano stabiliti aumenti periodici dello stesso stipendio o paga; 5° la retrocessione; 6° la destituzione. L'art. 44 indica i casi in cui si incorre nella retrocessione. Stabilisce, inoltre, che per effetto della retrocessione gli agenti vengono trasferiti al grado immediatamente inferiore; pero' quando il provvedimento stesso viene applicato, a norma dell'art. 55, in sostituzione della destituzione puo' farsi luogo eccezionalmente alla retrocessione di due gradi; e quando trattisi di togliere o non ridare le funzioni nelle quali fu commessa, la mancanza da punirsi, oppure di rimettere gli agenti nelle funzioni esercitate prima che siano stati promossi al grado da cui debbano essere retrocessi, viene assegnato quel grado che risulta necessario secondo la tabella graduatoria. Per gli agenti, per i quali la retrocessione non e' possibile, si fa luogo alla sospensione estensibile fino a trenta giorni con o senza trasloco punitivo cogli stessi effetti della retrocessione per quanto riguarda il disposto dell'art. 50 e dell'alinea seguente. Alla retrocessione va sempre aggiunta la proroga del termine normale per l'aumento dello stipendio o paga, per la durata di tre o di sei mesi. Dopo trascorso almeno un anno dalla retrocessione, gli agenti che ne siano ritenuti meritevoli possono ottenere la reintegrazione, per effetto della quale e' restituita a ciascuno la qualifica che prima rivestiva, fermi restando gli effetti della pena accessoria della proroga, e salva la facolta' dell'azienda di farne cessare la ripercussione, ai sensi del terzo e quarto comma dell'art. 43 (in tema di proroga del termine per l'aumento dello stipendio: 3. «Ove pero' l'agente ne sia riconosciuto meritevole, l'azienda ha facolta' di togliere l'effetto della ripercussione, accordando di tre o sei mesi o di un anno, a seconda della proroga inflitta, il periodo di tempo normale necessario per il raggiungimento di uno degli aumenti successivi». 4. «L'azienda puo' esercitare questa facolta' in ogni tempo, ma non mai prima che l'agente punito abbia avuto ritardato, dopo l'applicazione della punizione, il primo aumento spettantegli, salvo il caso che l'agente sia stato, prima di subire il ritardo, promosso di grado»). Infine, l'art. 55 dispone che le autorita' competenti a giudicare delle singole mancanze possono, a seconda delle circostanze e nel loro prudente criterio, applicare una punizione di grado inferiore a quella stabilita per le mancanze stesse. Ed al secondo comma cosi' recita: «Quando, per effetto di questo articolo, in luogo della destituzione si infligge la retrocessione, la proroga del termine normale per l'aumento dello stipendio o della paga o la sospensione dal servizio, a tali provvedimenti puo' essere aggiunto, come punizione accessoria e con le norme dell'art. 37, il trasloco punitivo». Da ultimo, il terzo comma stabilisce che le punizioni inflitte possono essere condonate, commutate o diminuite per deliberazione delle stesse autorita' competenti a giudicare delle mancanze relative. Come e' agevole desumere dal testo normativo, spicca evidente il carattere punitivo e militaresco della sanzione in esame, che si ripercuote di regola a tempo indeterminato sulla qualifica professionale conseguita dal lavoratore, salvo diverso apprezzamento, meramente discrezionale da parte datoriale circa la meritevolezza di un ripristino, meritevolezza che per la sua vaga formulazione implica una pura facolta' di concessione da parte aziendale, percio' anche difficilmente verificabile nella eventuale sede giudiziale in caso di tutela in proposito invocata dal dipendente, ad ogni modo con effetti duraturi sotto il profilo retributivo. In tale contesto appare irragionevole la retrocessione, per come regolata dalla legge, che assume i connotati di una vera e' propria pena, piuttosto che di una mera sanzione disciplinare, la quale non trova analogo riscontro afflittivo, umiliante e degradante in diversi trattamenti disciplinari riservati ad altri dipendenti civili, quali sono pure gli autoferrotranvieri al pari di categorie similari (si pensi soprattutto ai ferrovieri, personale viaggiante e di terra del gruppo Ferrovie dello Stato). Ne' puo' trascurarsi il retrivo aspetto etico-sociale della retrocessione in argomento, la quale sembra porsi in aperto contrasto con i valori solennemente affermati dall'art. 2 della Carta costituzionale (garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalita'). Parimenti, dicasi per concerne l'art. 35 della Costituzione, segnatamente laddove al secondo comma e' affermato che la Repubblica cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori, formazione ed elevazione che appaiono in stridente contrasto con il carattere afflittivo e tendenzialmente a tempo indeterminato della retrocessione in commento. Quest'ultima, di conseguenza, attesa la rilevata indeterminatezza cronologica e stante l'anzidetta vaga possibilita' di ripristino, finisce anche per poter incidere negativamente sul diritto alla retribuzione proporzionata alla quantita' e qualita' del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare un'esistenza libera e dignitosa, nei sensi di cui all'art. 36 della Costituzione. La stessa Corte costituzionale, del resto, pure con la recente sua pronuncia n. 194/18, depositata l'8 novembre 2018 e pubblicata in Gazzetta Ufficiale il successivo giorno 14, nella sua ricca ed articolata motivazione ha richiamato, confermandola, la sua precedente giurisprudenza in materia, laddove ha rilevato anche il vulnus recato dalla previsione ivi impugnata agli articoli 4, primo comma, e 35, primo comma, della Costituzione: «... Alla luce di quanto si e' sopra argomentato circa il fatto che l'art. 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23 del 2015, nella parte appena citata, prevede una tutela economica che non costituisce ne' un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, ne' un'adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, risulta evidente che una siffatta tutela dell'interesse del lavoratore alla stabilita' dell'occupazione non puo' ritenersi rispettosa degli articoli 4, primo comma, e 35, primo comma, della Costituzione, che tale interesse, appunto, proteggono. L'irragionevolezza del rimedio previsto dall'art. 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23 del 2015 assume, in realta', un rilievo ancor maggiore alla luce del particolare valore che la Costituzione attribuisce al lavoro (articoli 1, primo comma, 4 e 35 della Costituzione), per realizzare un pieno sviluppo della personalita' umana (sentenza n. 163 del 1983, punto 6, del Considerato in diritto). Il «diritto al lavoro» (art. 4, primo comma, della Costituzione) e la «tutela» del lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35, primo comma, della Costituzione) comportano la garanzia dell'esercizio nei luoghi di lavoro di altri diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Il nesso che lega queste sfere di diritti della persona, quando si intenda procedere a licenziamenti, emerge nella gia' richiamata sentenza n. 45 del 1965, che fa riferimento ai «principi fondamentali di liberta' sindacale, politica e religiosa» (punto 4, del Considerato in diritto), oltre che nella sentenza n. 63 del 1966, la' dove si afferma che «il timore del recesso, cioe' del licenziamento, spinge o puo' spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti» (punto 3, del Considerato in diritto). ...» (cfr. peraltro, da ultimo, quanto, nelle more della pubblicazione di questo provvedimento, ricordato ancora da questa Corte - VI civ. L, con l'ordinanza n. 10023 in data 8 gennaio-10 aprile 2019: «La privazione totale delle mansioni, che costituisce violazione di diritti inerenti alla persona del lavoratore oggetto di tutela costituzionale (cfr. Cassazione civile sez. un., 22 febbraio 2010, n. 4063 resa in fattispecie di «sostanziale privazione di mansioni» in un rapporto di pubblico impiego privatizzato), non puo' essere invece una alternativa al licenziamento. ...»).