LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
                           Sezione lavoro 
 
    Composta dagli Ill.mi signori magistrati: 
        dott. Giuseppe Bronzini - presidente; 
        dott. Paolo Negri Della Torre - consigliere; 
        dott. Federico Balestrieri - consigliere; 
        dott. Federico De Gregorio - relatore consigliere; 
        dott. Antonella Pagetta - consigliere, 
ha pronunciato la seguente 
 
                      Ordinanza interlocutoria 
 
sul ricorso 3038-2015 proposto da: 
    P.M. domiciliato in Roma  piazza  Cavour  presso  la  cancelleria
della  Corte  Suprema   di   Cassazione,   rappresentato   e   difeso
dall'avvocato Luciano Della Vite; 
    Ricorrente contro A.T.B. Servizi S.p.a., in  persona  del  legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via di
Ripetta n. 22, presso lo studio dell'avvocato Gerardo Vesci,  che  la
rappresenta e difende  unitamente  agli  avvocati  Matteo  Golferini,
Margherita Caggese; 
    Controricorrente avverso la  sentenza  n.  327/2014  della  Corte
d'appello di Brescia, depositata il 10 luglio 2014 R.G.N. 60/2013; 
    Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza  del
19 febbraio 2019 dal consigliere dott. Federico De Gregorio; 
    Udito il pubblico ministero in persona del sostituto  procuratore
generale dott. Carmelo Celentano che ha concluso per il  rigetto  del
ricorso; 
    Udito  l'avvocato  Sergio  Gandi  per  delega  verbale   avvocato
Margherita Caggese. 
 
                           Fatti di causa 
 
    Il sig. M.P., dipendente di ATB Servizi S.p.a., concessionaria di
servizio pubblico di trasporto,  chiese  al  giudice  del  lavoro  di
Bergamo di' essere reintegrato nel profilo professionale  di  addetto
all'esercizio con  parametro  retributivo  193  e  di  dichiarare  la
cessazione di ogni effetto della proroga del termine previsto per gli
aumenti  retributivi  contrattualmente   previsti,   il   tutto   con
decorrenza 23 luglio 2009, data in cui l'azienda gli  aveva  inflitto
la sanzione disciplinare  della  retrocessione  di  due  gradi  nella
carriera (percio' retrogradazione  al  parametro  retributivo  175  e
assegnazione  del  profilo  di  operatore  di  esercizio),   prevista
dall'art. 37 allegato A al regio  decreto  n.  148/1931,  nonche'  la
correlata sanzione di cui all'art. 44  dello  stesso  regio  decreto,
ossia in aggiunta la «proroga del termine normale per l'aumento della
retribuzione, per la durata di mesi sei, con  riguardo  a  tutti  gli
aumenti  retributivi  spettanti  dopo  quello  che  sara'  per  primo
ritardato a seguito dell'applicazione della  retrocessione  disposta»
con lo stesso provvedimento. 
    Il giudice adito, ritenuto che l'attore non contestava il  merito
della sanzione inflittagli, ma quale unico motivo  della  domanda  la
legittimita' costituzionale delle citate norme  di  cui  al  suddetto
decreto  148,  per  contrasto  con  gli  articoli  3   e   35   della
Costituzione,  rigettava   il   ricorso,   ritenendo   la   manifesta
infondatezza   della   prospettata    questione    di    legittimita'
costituzionale. 
    Il P. impugnava la suddetta  pronuncia,  sostenendo  l'erroneita'
della decisione. 
    La societa' convenuta resisteva all'interposto gravame, spiegando
a sua volta appello incidentale, chiedendo la riforma della  sentenza
impugnata  nella  parte  in  cui  aveva   respinto   l'eccezione   di
inammissibilita' della  domanda,  dal  momento  che  l'unica  censura
svolta  dal  lavoratore  in  ordine  alle  sanzioni  irrogategli  era
l'eccezione d'incostituzionalita'. 
    La Corte d'appello di Brescia con sentenza  n.  327  in  data  27
giugno 2014, pubblicata il successivo 10 luglio, rigettava  l'appello
principale e quello  incidentale,  dichiarando  compensate  le  spese
relative al secondo grado del giudizio. 
    La Corte territoriale  osservava  che,  come  correttamente  gia'
rilevato dal primo giudicante, il lavoratore non aveva contestato  la
sussistenza dell'illecito disciplinare (fatto accaduto il 6  novembre
2008 nell'esercizio delle mansioni di controllore, per cui il P.  era
stato rinviato a giudizio, con successiva applicazione della pena  ex
art. 444 del codice di procedura penale, in ragione di mesi undici di
reclusione), ma  aveva  chiesto  la  rimozione  degli  effetti  delle
anzidette  sanzioni,  sostenendo,  incidentalmente,  l'illegittimita'
delle stesse, siccome risultando incostituzionali  le  norme  che  le
prevedevano. 
    La corte d'appello, quindi, condivideva la  qualificazione  della
domanda negli anzidetti termini, per cui la stessa era stata ritenuta
ammissibile.     Infatti,     l'accertamento      dell'illegittimita'
costituzionale delle norme di cui al regio decreto n.  148  del  1931
non era il  petitum  diretto  della  domanda,  ma  lo  strumento  per
ottenere quel determinato petitum, inteso come il bene della vita che
si  intende  conseguire,  ossia   la   reintegrazione   del   profilo
professionale di addetto all'esercizio con parametro retributivo  193
e la cessazione della proroga del termine per l'aumento stipendiale. 
    Tanto bastava, ad avviso  della  Corte  bresciana,  per  ritenere
l'infondatezza dell'appello incidentale. Non essendo stata riproposta
la questione della giurisdizione, occorreva quindi passare al  merito
del gravame, pero' giudicato  anch'esso  infondato,  condividendo  la
corte distrettuale le argomentazioni del giudice di  primo  grado  in
ordine  alla  assoluta  specialita',  sia   pure   residuale,   della
disciplina dettata dal  suddetto  regio  decreto,  di  modo  che  non
sarebbe manifestamente  irragionevole  o  palesemente  arbitrario  il
mantenimento di un regime speciale riservato agli autoferrotranvieri.
In   particolare,   si   richiamava   l'insegnamento   della    Corte
costituzionale, la quale in relazione all'art. 3  della  Costituzione
aveva chiarito che il rapporto di lavoro degli  addetti  ai  pubblici
servizi di trasporto in regime di concessione costituisce  una  forma
intermedia tra l'impiego pubblico e  quello  privato  ed  e'  appunto
assoggettato alla normativa speciale di cui al regio decreto,  giusta
la sentenza n. 190 del 2000 pronunciata dalla  Consulta,  nonche'  le
ordinanze della stessa n.  439  del  2002  e  n.  301  del  2004.  La
specialita' del rapporto era giustificata dall'interesse  collettivo,
ritenuto preminente,  al  buon  funzionamento  e  all'efficienza  del
servizio  pubblico  del  trasporto,  avuto  riguardo  alle  variegate
multiformi tipologie di gestione da parte di aziende  autonome  o  da
parte di soggetti privati, tutti  in  regime  di  concessione  e  con
poteri derivanti dal trasporto di concessione in  ordine  anche  alla
sicurezza e alla polizia di trasporti. 
    Alla  luce   della   specialita'   del   rapporto,   era   dunque
condivisibile  l'affermazione  del  primo  giudicante,  secondo   cui
proprio la permanenza nell'ordinamento della specialita' del rapporto
faceva si'  che  la  scelta  discrezionale  del  legislatore  di  non
intervenire, modificandola,  sulla  speciale  regolamentazione  delle
sanzioni disciplinari per  i  dipendenti  delle  aziende  -  in  mano
pubblica o privata - di  trasporto  non  era  censurabile  sul  piano
costituzionale,   non   essendo   manifestamente   irragionevole    o
palesemente arbitraria. 
    Non residuava, quindi, alcuno spazio per un paragone  comparativo
tra la disciplina in esame, ed  in  particolare  la  parte  normativa
concernente  le  anzidette  sanzioni,  con   quella   di   lavoratori
subordinati privati o dei lavoratori pubblici. Infatti, il  principio
di eguaglianza ex  art.  3  della  Costituzione  non  era  invocatile
proprio per la diversita' della materia  in  questione,  inerente  al
rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri, rispetto al rapporto  di
lavoro di diritto privato e al rapporto di lavoro alle dipendenze  di
pubbliche  amministrazioni.  Ed  invero  non  era  prospettabile  una
violazione dell'art. 3, occorrendo in proposito  soltanto  lo  stesso
trattamento per le situazioni identiche,  ma  non  anche  parita'  di
trattamento riguardo a situazioni diverse. 
    Secondo  la  corte  territoriale,  era  altresi'   manifestamente
infondata l'eccezione d'incostituzionalita' dell'anzidetta  normativa
in relazione all'art. 35, comma primo, della  Costituzione.  Infatti,
la questione andava  esaminata  non  in  relazione  al  diritto  alla
qualifica e alla violazione dello stesso,  bensi'  sotto  il  profilo
della  legittimita'  costituzionale  di  una  sanzione   disciplinare
comportante, in funzione punitiva, una retrocessione  in  carriera  e
quindi  una  sanzione  diversa  da  quelle   prevista   dalla   legge
nell'ambito degli altri  rapporti  di  lavoro,  pubblici  e  privati,
retrocessione  in  carriera,  la  quale  ad  ogni  modo  non  restava
bloccata,  potendo  comunque  progredire.  Ad  avviso  della   Corte,
inoltre, l'art. 35 della Costituzione,  tutelando  il  diritto,  alla
formazione e alla elevazione professionale dei lavoratori, non  aveva
introdotto limiti al legislatore in materia di sanzioni disciplinari,
di modo che il suo richiamo non appariva pertinente. 
    Era chiaro, poi,  che  la  specialita'  del  rapporto  comportava
diverso trattamento, anche sotto tale profilo, rispetto ai dipendenti
privati e pubblici. 
    La corte di merito condivideva  anche  l'affermazione  del  primo
giudicante, secondo cui, pur volendosi ipotizzare una limitazione del
diritto quesito  alla  qualifica,  si  tratterebbe  comunque  di  una
limitazione temporale, visto che l'art. 44, ultimo comma, del  citato
regio decreto n._ 148,  prevedeva  la  possibilita'  di  ottenere  la
reintegrazione, trascorso almeno un anno dalla retrocessione, per gli
agenti ritenuti meritevoli, donde la restituzione  a  ciascuno  della
qualifica in precedenza rivestita, fermi restando gli  effetti  della
pena accessoria della proroga  e  restando  pure  salva  la  facolta'
dell'azienda di farne cessare la ripercussione ai sensi del  terzo  e
quarto comma dell'art. 43.  Ne'  poteva  assumere  rilevanza  che  il
giudizio sulla meritevolezza fosse riservato  al  datore  di  lavoro,
laddove  in  caso  di  ingiustificata   negazione   dell'istanza   di
reintegrazione restava comunque assicurato il diritto del  lavoratore
di rivolgersi al giudice per far valere le proprie ragioni. 
    Infine, la corte  distrettuale  rilevava  come  la  retrocessione
fosse meno afflittiva  del  licenziamento  o,  con  riferimento  agli
autoferrotranvieri, della destituzione, sanzione la cui  legittimita'
era fuori discussione. 
    Avverso la succitata sentenza d'appello ha proposto  ricorso  per
cassazione il sig. M.P. come da atto notificato il  5  gennaio  2015,
affidato a quattro motivi, cui ha resistito  A.T.B.  Servizi  S.p.a.,
mediante controricorso notificato a mezzo p.e.c. in data 11  febbraio
2015, nonche' tramite ufficiale giudiziario in  data  12-13  febbraio
2015,  in  seguito  illustrato  da  memoria   depositata   in   vista
dell'adunanza in camera di consiglio fissata per il giorno 17 ottobre
2018. 
    All'esito di detta adunanza,  quindi,  il  collegio  ha  ritenuto
necessaria la  trattazione  in  pubblica  udienza  come  da  relativa
ordinanza. 
 
                       Ragioni dell'ordinanza 
 
    Con il primo motivo, formulato ai sensi dell'art. 360,  comma  I,
n. 3 del codice di procedura civile, il ricorrente ha  denunciato  la
violazione degli articoli 2, 3, 4 e 35, comma I  della  Costituzione,
la cui disciplina si assume in contrasto con  quella  invece  dettata
dagli articoli 37, comma I, n. 5,  e  44  dell'allegato  A  al  regio
decreto n. 148 del 1931. 
    Violazione diritto al lavoro (che si attua non solo attraverso la
salvaguardia delle posizioni economiche, ma anche e  soprattutto  con
la garanzia di diritti fondamentali inerenti al rapporto  di  lavoro,
tra i quali senz'altro pure il diritto alla qualifica.  La  qualifica
in realta' costituisce il criterio di  identificazione  del  tipo  di
prestazione espletabile dal lavoratore e discende congiuntamente  sia
dall'astratta formazione tecnico professionale del medesimo, sia  dal
complesso delle concrete esperienze  lavorative  maturate  nel  corso
della sua attivita'. In quanto espressione  delle  capacita'  tecnico
professionali del lavoratore la qualifica appare,  quindi,  non  solo
connaturata alla qualita' di lavoratore subordinato,  ma  addirittura
strettamente legata alla  persona  del  lavoratore,  poiche'  esprime
appunto il livello di esperienze  da  lui  personalmente  maturato  e
formalmente riconosciutogli  nel  corso  del  rapporto).  Secondo  il
ricorrente, proprio per l'essenziale rilievo che la qualifica riveste
nel rapporto di lavoro e per l'ontologica connessione di essa con  la
personalita'  del  lavoratore,  appare  chiaramente  ricompresa   nel
concetto di tutela del lavoro di cui all'art. 35  della  Costituzione
anche la tutela della  professionalita'  maturata  dal  lavoratore  e
divenuta parte di esso, il cui relativo  diritto  si  presenta  quale
diritto essenziale  della  persona  del  lavoratore,  come  principio
generale dell'ordinamento del lavoro. 
    La tutela di lavoro deve estrinsecarsi anche  nella  corretta  ed
equa utilizzazione delle capacita' lavorative del prestatore e  nella
garanzia di riconoscimento della qualifica, la quale  e'  soggetta  a
variazioni in relazione alla  modificazione  della  stessa  capacita'
lavorativa del prestatore, ma non per motivi puramente disciplinari. 
    Poiche' la  qualifica  non  costituisce  di  certo  un  beneficio
accordato discrezionalmente dal datore di lavoro,  ne'  tantomeno  un
accessorio delle obbligazioni principali derivanti  dal  rapporto  di
lavoro, ma rappresenta e si identifica con la persona del lavoratore,
in ciascun momento storico del rapporto considerato, individuando  le
qualita' essenziali e ontologiche della sua capacita' professionale e
lavorativa, appare  inammissibile,  secondo  il  ricorrente,  che  il
datore di lavoro  possa,  con  un  mero  provvedimento  disciplinare,
privare lavoratore  della  capacita'  lavorativa  da  lui  raggiunta,
retrocedendolo ad una qualifica inferiore, ovvero azzerando  -  anche
attraverso ripetute retrocessioni, teoricamente possibili, secondo la
normativa de qua -  addirittura  i  progressi  tecnici  maturati  dal
dipendente. 
    Di  conseguenza,  si  assume  da  parte   ricorrente,   altresi',
illegittima la  norma  di  legge  che  possa  consentire  l'anzidetta
privazione mediante la  contestata  retrocessione  ad  una  qualifica
inferiore, stante il palese contrasto  con  la  tutela  generale  del
lavoro di cui sopra. Del resto, una tale possibilita' appare gia'  in
contrasto  con  la  disciplina  ormai  generalmente   fissata   dalla
legislazione ordinaria piu'  recente,  rispetto  a  quella  speciale,
relativamente  alla  materia  trattata   per   tutti   i   lavoratori
subordinati in materia di qualifica e di mansioni. 
    Infatti, l'art. 2103 del codice civile, come modificato dall'art.
13 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (ovviamente, secondo  il  testo
nella  specie  ratione  temporis  applicabile  con  riferimento  alla
sanzione applicata  il  23  luglio  2009),  afferma  il  diritto  del
lavoratore a vedere sempre rispettate le mansioni e la  qualifica  di
assunzione,  ovvero  quella   successivamente   acquisite,   sancendo
indirettamente la inderogabilita' in  pejus  del  livello  lavorativo
raggiunto  e  comunque  sottraendo  alla  sfera  di   efficacia   dei
provvedimenti disciplinari la materia della qualifica. Tale normativa
costituirebbe, dunque, diretta attuazione proprio dell'art. 35  della
Costituzione. 
    D'altro canto, l'art. 7 della  legge  20  maggio  1970,  n.  300,
sancisce che, fermo restando quanto disposto dalla  legge  15  luglio
1966, n. 604, non possono essere disposte sanzioni  disciplinari  che
comportino mutamenti  definitivi  del  rapporto  di  lavoro.  Quindi,
secondo  il  ricorrente,  e'  previsto,   come   principio   generale
dell'ordinamento in materia  di  lavoro,  che  l'unica  modificazione
definitiva consentita come sanzione disciplinare possa consistere nel
licenziamento,   quando   ne   ricorrano   gli    estremi    previsti
specificamente dalla relativa disciplina. 
    La ratio delle anzidette disposizioni di  legge  era  ravvisabile
nell'esigenza  di  sottrarre  alla  disponibilita'  delle  parti,  in
particolare del datore di lavoro, la  gestione  della  qualifica  del
lavoratore e cioe' della sua capacita' tecnico-professionale, che  si
estrinseca proprio nella  qualifica,  la  quale  progredisce  con  il
progredire delle esperienze del lavoratore. 
 
                      Disparita' di trattamento 
 
    Inoltre, sulla scorta della richiamata legislazione ordinaria, le
disposizioni degli articoli 37, primo comma, n.  5  e  44  del  regio
decreto n. 148/1931, allegato A, ad avviso del  ricorrente,  appaiono
in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, in  quanto,  prevedendo
una  regolamentazione  speciale   e   peggiorativa   delle   sanzione
disciplinare per i soli  dipendenti  delle  aziende  ferrotranviarie,
attuano una  disparita'  di  trattamento  rispetto  tutti  gli  altri
lavoratori dipendenti, per i quali la legge non prevede e non ammette
la possibilita'  di  una  perdita  della  qualifica  raggiunta  quale
particolare  tipo  di  sanzione  disciplinare.  Tale  diversita'   di
trattamento   non   sembra   giustificabile   neppure   sulla    base
dell'asserita specialita' del lavoro dei  dipendenti  di  aziende  di
trasporto, dal momento che non trova comunque  fondamento  in  alcuna
peculiarita' di tale  rapporto,  ma  attiene  invece  ad  un  aspetto
generale, quale il potere disciplinare del datore di lavoro,  e  alla
tipologia  delle  sanzioni.  Proprio  tale   tipologia   non   appare
ragionevolmente condizionabile della specialita' del rapporto, quanto
meno non al punto da consentire  alla  parte  datoriale  di  incidere
sulla qualifica del lavoratore e sulle corrispondenti. mansioni. 
    Pertanto, ad avviso del ricorrente, la questione di  legittimita'
costituzionale dei succitati articoli 37, comma I, n. 5,  e  44,  non
poteva dirsi manifestamente infondata, risultando la sua  definizione
rilevante e preliminare ai fini della decisione della controversia. 
    D'altro canto, per diritti  inviolabili  dell'uomo  si  intendono
quei   diritti   e   quelle   liberta'   considerati   essenziali   e
incancellabili, in quanto strettamente connessi  alla  natura  umana.
Come tali questi diritti sono sottratti  al  potere  dispositivo  del
legislatore ordinario e oltretutto immuni anche  dalle  procedure  di
revisione costituzionale. Pure il diritto al lavoro e, di conseguenza
alla qualifica e alla mansione  corrispondente,  andrebbe  ricompreso
tra i diritti inviolabili, giacche' l'attivita' lavorativa  non  puo'
essere esaminata esclusivamente sotto il profilo dello  strumento  di
sostentamento,  ma  piu'   propriamente   come   una   modalita'   di
manifestazione della personalita'  del  lavoratore;  con  l'ulteriore
conseguenza per cui la lesione  dei  valori  costituiti  in  capo  al
prestatore di lavoro subordinato  si  pone  anche  conflitto  con  le
previsioni di cui all'art. 2 della Costituzione. 
    Ne'  potrebbe  correttamente  sostenersi  che  da  nessuna  norma
costituzionale emerga espressamente un limite al potere  disciplinare
del datore di lavoro, avuto  riguardo  in  primo  luogo  all'espressa
previsione dell'inviolabilita' dei diritti dell'uomo di cui  all'art.
2 della stessa Costituzione, sia come singolo  sia  nelle  formazioni
sociali in cui si svolge la sua personalita'. Ed un primo  ordine  di
limiti generali al potere datoriale di incidere disciplinarmente  sui
beni e diritti, fondamentali, materiali e morali, dell'uomo  e'  piu'
concretamente poi individuato da tutte quelle norme che  tutelano  la
liberta' fondamentali della persona.  Tali  garanzie  dei  diritti  e
delle liberta' si pongono  come  limiti  generali  non  solo  per  il
legislatore, che non puo'  cancellarli,  se  non  per  particolari  e
tipizzate esigenze di interesse  generale,  ma  anche  per  qualsiasi
ordinamento  privato  di  fonte  contrattuale  che  voglia  prevedere
sanzioni a carico degli aderenti al medesimo. 
    Anche per quanto concerne la  specifica  disciplina  del  lavoro,
secondo il ricorrente, la Costituzione prevede molteplici  limiti  al
potere datoriale, sia con riguardo agli aspetti  economici  che  agli
aspetti professionali dell'attivita'  prestata  dal  lavoratore,  dei
quali  taluni  espressamente  indicati,  ma   altri   necessariamente
impliciti per ovvie ragioni di sintesi e di  stringatezza  del  testo
costituzionale, benche' chiaramente deducibili per via interpretativa
da  tenore  generale  delle  norme  costituzionali.  In  particolare,
allorche' la Costituzione esprime esigenze di tutela del lavoro, cio'
implica che siano da intendersi come inammissibili e illeciti tutti i
comportamenti  risultanti  in  contrasto   con   tale   esigenza   ed
illegittime quindi le norme di legge che li autorizzano. 
    Sempre ad avviso del ricorrente, inoltre, gli articoli  37  e  44
dell'allegato A al regio decreto si pongono in  netto  contrasto  con
l'art. 4 della Costituzione, norma che riprende ampliandolo cio'  che
l'art. 1 della medesima sancisce quale fondamento  della  Repubblica.
La norma, infatti, assegna al lavoro il duplice ruolo di diritto e di
dovere,   intesi   non   in   senso   strettamente   giuridico,    ma
rispettivamente come un fine, cui lo Stato deve tendere, ed un dovere
morale che ciascun individuo, cittadino o meno,  dovrebbe  adempiere,
nel rispetto della liberta'  della  persona.  Il  riconoscimento  del
lavoro come uno dei principi fondanti della Repubblica  rimanda  alla
funzione sociale del lavoro svolto come  mezzo  di  produzione  e  di
ricchezza  materiale  e  morale  per  la  persona,  non  come   merce
necessaria alla massimizzazione dei profitti,  ne'  come  fattore  di
produzione,  ma  come  realizzazione  dell'individuo  e   delle   sue
aspirazioni materiali e spirituali. 
    Con il  secondo  motivo  (formulato,  presumibilmente,  ai  sensi
dell'art. 360, comma I, n. 5 del codice di procedura civile) e' stata
denunciata la omessa, insufficiente e/o  contraddittoria  motivazione
circa la opinata specialita' del rapporto  di  lavoro  in  questione,
relativo  agli  autoferrotranvieri,  «problematica»  da  considerarsi
fatto controverso e decisivo, gia'  oggetto  di  discussione  tra  le
parti. 
    Si contesta la motivazione fornita dai giudici di merito, secondo
cui non sussiste il paventato dubbio di legittimita'  costituzionale,
attesa la assoluta specialita', sia pure residuale, della  disciplina
contenuta nel citato regio decreto, trattandosi in effetti ad  avviso
del ricorrente di affermazioni  tralaticie,  che  non  hanno  offerto
alcuna  plausibile  spiegazione  circa   le   ragioni   dell'asserita
specialita' caratterizzante il rapporto degli  autoferrotranvieri,  e
del perche' la  stessa  dovrebbe  giustificare  una  cosi'  stridente
disparita' di trattamento, rispetto ad altre categorie di lavoratori,
con riguardo ad un aspetto di  carattere  generale  quale  il  potere
disciplinare del datore di lavoro. 
    In effetti, la disciplina dettata  dai  suddetti  articoli  37  e
seguenti si assume lontanissima da quella prevista dall'art. 7  dello
Statuto dei lavoratori e il  mantenimento  di  sanzione  disciplinare
definitiva, come la retrocessione, non si fonda e non si'  giustifica
su alcuna  peculiarita'  del  rapporto  considerato.  Anche  a  voler
ritenere che il rapporto con  gli  addetti  ai  pubblici  servizi  di
trasporto costituisca una forma intermedia tra l'impiego  pubblico  a
quello  privato,  non  e'  possibile  reperire  una  sola  plausibile
motivazione per il mantenimento nell'ordinamento  giuslavoristico  di
una  sanzione  quale  la  retrocessione.  La  quale  non  e'  neppure
menzionata nel codice di disciplina previsto per i  dipendenti  della
pubblica amministrazione. Se anche fosse vero che la specialita'  del
rapporto  e'   giustificata   dall'interesse   collettivo   al   buon
funzionamento del servizio pubblico di trasporto, cio' non  potrebbe,
comunque, legittimare la permanenza di una sanzione,  dal  permanente
carattere afflittivo come  la  retrocessione,  espunta  invece  dalla
vigente legislazione nei confronti  dei  pubblici  dipendenti.  Anzi,
proprio l'odiosa e irragionevole disparita' di trattamento  in  danno
dei lavoratori del comparto autoferrotranvieri si pone in  contrasto,
evidente e incontrovertibile, con l'art. 3 della Costituzione. 
    Infatti, nel  settore  dei  trasporti  di  lavoro  del  personale
civile,  pubblico  e  privato,  la   sanzione   della   retrocessione
costituisce   un   unicum    che    penalizza    esclusivamente    di
autoferrotranvieri. Il trattamento deteriore in questione non risulta
previsto per i ferrovieri o  gli  autoferrotranvieri  internavigatori
delle autolinee private. Rispetto a questi  ultimi  l'art.  66  della
C.C.N.L. 23 luglio 1976 prevede le  sanzioni  del  rimprovero,  della
multa, della sospensione del licenziamento, ma non la  retrocessione.
Tale misura non e' neanche prevista per i dipendenti  delle  Ferrovie
dello Stato (per i quali il C.C.N.L.  6  febbraio  1998  all'art.  95
contempla esclusivamente il rimprovero scritto e verbale,  la  multa,
la sospensione e  il  licenziamento),  ne'  per  i  dipendenti  delle
aziende di trasporto merci come da art. 31 C.C.N.L. 22 luglio 1991. 
    In  realta'  la  contestata   sanzione   punitiva,   secondo   il
ricorrente,   era   stata   palesemente   tratta    dall'armamentario
sanzionatorio previsto per i militari, per cui tuttavia non  sussiste
piu' alcuna ragione  legittimante  l'equiparazione  tra  appartenenti
alle Forze armate e i  dipendenti  del  settore  autoferrotranviario.
Oltretutto  la  materia  disciplinare  era  l'unica  parte  normativa
sopravvissuta alle modifiche, introdotte successivamente, che avevano
eliminato ogni diversificazione di trattamento tra i lavoratori. 
    Tuttavia, nonostante  la  situazione  sopra  delineata  circa  il
dubbio fondato di legittimita' costituzionale delle  anzidette  norme
residuali, la  corte  d'appello  aveva  ritenuto  che  la  violazione
dell'art. 3  della  Costituzione  non  avrebbe  avuto  alcuna  ragion
d'essere. 
    Per contro, una volta  ammesso  che  a  colpi  di  contrattazione
collettiva  e  sulla   base   di   ormai   consolidati   orientamenti
giurisprudenziali la maggior parte  delle  disposizioni  della  legge
speciale  era  stata  travolta,  ne   derivava   inevitabilmente   la
necessita'  di  una   completa   parificazione,   anche   sul   piano
disciplinare,  dei  lavoratori  del  comparto  autoferrotranvieri  ai
colleghi dell'analogo settore  pubblico  e  privato.  A  mero  titolo
esemplificativo,  infatti,  parte  ricorrente  ha  segnalato  che   i
ferrovieri, a suo tempo anch'essi sottoposti alla disciplina  dettata
dal suddetto regio decreto, sono rimasti soggetti alla sanzione della
retrocessione soltanto fino al momento  della  privatizzazione  delle
Ferrovie dello Stato e all'adozione di criteri dettati,  in  tema  di
provvedimenti disciplinari, della legge  n.  300  del  1970.  Non  si
vedeva dunque la ragione per la quale una punizione cosi'  afflittiva
e ingiusta dovesse permanere con riguardo soltanto ai  dipendenti  di
aziende speciali, come la A.T.B. Servizi, la quale in quanto societa'
per azioni aveva adottato pienamente il  regime  privatistico,  tanto
nei rapporti con il personale quanto nel relazionarsi con i  soggetti
terzi, a conferma  dunque  che  anch'essa  operava  sul  mercato  del
trasporto in assenza di qualsivoglia privilegio o primato  legato  ad
una sua presunta  genesi  pubblica  (residuo  di  potesta'  e  poteri
pubblicistici). 
    Con il terzo motivo il ricorrente ha denunciato, ex art. 360,  n.
3 del codice di procedura civile, la violazione dell'art. 102,  comma
primo,  lettera  B  del  decreto  legislativo  n.  112/1998,  nonche'
dell'art. 7 della legge n. 300/1970. 
    Il decreto legislativo  n.  112  del  1998  in  attuazione  della
cosiddetta riforma Bassanini aveva  previsto  la  soppressione  delle
norme relative alla  nomina  dei  consiglieri  disciplina.  Anche  la
Regione Lombardia era intervenuta sul punto con la legge regionale n.
1 del 2000, sopprimendo le funzioni amministrative sino ad allora per
la nomina dei componenti dei consigli di disciplina delle aziende  di
trasporto pubblico locale. Il Consiglio di Stato con il  parere  reso
in data 19 aprile 2000 aveva, inoltre,  sostenuto  che  l'intervenuta
modifica  normativa  aveva  comportato  non  solo  l'abolizione   dei
consigli di disciplina, ma anche una  sostanziale  abrogazione  della
normativa pseudo-pubblicistica dedicata  alle  sanzioni  disciplinari
per gli autoferrotranvieri, sostanziale e procedurale, sicche'  aveva
opinato nel senso  che  non  vi  fossero  piu'  ostacoli  alla  piena
applicazione in  tale  ambito  della  disciplina  di  diritto  comune
dettata dalla legge n. 300 del 1970. 
    Quanto, poi, alla limitazione temporanea della sanzione, come sul
punto ritenuto dalla corte d'appello, il ricorrente ha osservato  che
in realta', a mente dell'art. 44, ultimo comma del suddetto  allegato
A al regio decreto, il prestatore puo' ottenere la restituzione della
qualifica rivestita prima della retrocessione, purche' sia  trascorso
almeno  un  anno  dal  provvedimento.  Trattasi,   pero',   di   mera
eventualita'   subordinata   ad   un   discrezionale   giudizio    di
meritevolezza da parte dell'azienda. Alla  medesima  valutazione  del
datore di lavoro  e'  subordinato  anche  l'eventuale  accantonamento
della  proroga  del  termine  per  l'aumento  dello  stipendio,  pena
accessoria usualmente inflitta unitamente alla retrocessione, di modo
che qualora l'azienda  non  reputi  il  dipendente  meritevole  della
reintegrazione  nella  qualifica,  la  sanzione  opera  con   effetti
permanenti e definitivi. Proprio questa disdicevole situazione si era
verificata  nel  caso  di  specie,  poiche'  il  P.  si   era   visto
reiteratamente  respingere  le  istanze  indirizzate  alla   societa'
resistente, volte ad ottenere la restituzione allo stato  precedente.
Vi era, d'altro canto, da dubitare  che,  ove  il  datore  di  lavoro
nell'esercizio del potere  discrezionale  riconosciutogli  dal  regio
decreto negasse la reintegrazione  nell'originaria  qualifica,  fosse
possibile per la parte danneggiata adire il giudice onde  far  valere
le  proprie  ragioni,  essendo  ogni  relativa  scelta  rimessa  alle
insindacabili determinazioni della stessa parte datoriale. 
    Con il quarto motivo di  ricorso  e'  stata  dedotta  la  omessa,
insufficiente  e/o   contraddittoria   motivazione   della   sentenza
impugnata in ordine alla dedotta violazione  degli  articoli  2  e  4
della Costituzione, «problematica da considerarsi fatto controverso e
decisivo per il giudizio, gia' oggetto di discussione tra le parti» -
Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2103 del codice civile  e
dell'art. 7 della legge n. 300  del  1970,  poiche'  soltanto  per  i
ferrotranvieri  in  base  alla  suddetta  normativa  vi  sarebbe   la
possibilita' di una definitiva  perdita  della  qualifica  raggiunta,
quale particolare  sanzione  disciplinare  in  base  alla  denunciata
normativa di cui al regio decreto, in  violazione  dunque  ed  ancora
pure  dell'art.  3  della  Costituzione.  Non  era  stato  esaminato,
inoltre, dalla corte d'appello il profilo  inerente  alla  violazione
degli articoli  2  e  4  della  Costituzione,  donde  il  difetto  di
motivazione. 
    Tanto premesso, appaiono in larga parte giustificate le doglianze
prospettate da parte ricorrente, per quanto concerne i rilevati dubbi
di legittimita' costituzionale, che  nei  seguenti  limiti  risultano
indubbiamente rilevanti nel caso di specie in ordine alla definizione
della controversia di cui e' processo. 
    Ed invero, pur indipendentemente da  talune  errate  rubricazioni
sub art. 360 del codice di procedura civile, da parte ricorrente, che
ad ogni modo non precludono al giudicante la corretta  qualificazione
sotto il profilo giuridico delle questioni  sostanziali  prospettate,
le stesse meritano un approfondito vaglio  di  merito  da  parte  del
comperate  giudice  delle  leggi,  con  specifico  riferimento   alla
contestata sanzione della retrocessione, la  quale  non  solo  appare
inattuale, a distanza di circa 88 anni  dal  varo  dell'ormai  remoto
regio decreto n. 148/1931,  ma  altresi'  irragionevole  per  effetto
delle novita' politico-sociali e normative intervenute nelle more del
lungo  tempo  trascorso,  caratterizzate  essenzialmente  dal  mutato
regime costituzionale,  laddove  i  principi  fondanti  (segnatamente
quelli di cui ai primi tre  articoli  dalla  Costituzione)  risultano
poco  compatibili  con   una   sanzione   disciplinare   punitiva   e
mortificante, di durata notevole quanto meno  nel  minimo,  che  trae
origine evidentemente dal  risalente  inquadramento  militare,  degli
autoferrotranvieri, pero' da lustri scomparso. 
    Va,  inoltre,  rilevato   che   nella   specie   deve   ritenersi
pacificamente operante  la  giurisdizione  ordinaria,  visto  che  le
pronunce di merito non risultano essere state  impugnate  sul  punto,
con conseguente formazione di  giudicato  al  riguardo,  peraltro  in
linea  con  la  giurisprudenza  questa  corte  ormai  consolidata  in
proposito (cfr. in part. Cass. sez. un. civ., sentenza n. 460 del  13
gennaio 2005), secondo cui le controversie  in  materia  di  sanzioni
disciplinari per gli addetti al servizio  pubblico  di  trasporto  in
concessione, attribuite al giudice amministrativo  dall'art.  58  del
regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148, allegato A), appartengono  alla
cognizione del giudice ordinario, stante l'implicita abrogazione  per
incompatibilita', sin dall'operativita' della disposizione originaria
dell'art. 68 del decreto legislativo 3 febbraio 1993,  n.  29,  della
persistente giurisdizione del giudice amministrativo prefigurata  dal
citato art. 58 (conformi Cass. sez. un. n. 1728 del 28 gennaio  2005,
n. 6999 del 5 aprile 2005, n. 9939 del 12 maggio 2005, n. 613 del  15
gennaio 2007, 7939 del 27 marzo 2008. Cfr. ancora Cass. sez. un. civ.
n. 15917  del  22  aprile-13  giugno  2008,  che  nel  confermare  la
giurisdizione ordinaria ribadiva quanto statuito dalle Sezioni  unite
con ordinanza  n.  464  del  13  gennaio  2005,  nel  senso  che  «le
controversie in materia di sanzioni disciplinari per gli  addetti  al
servizio pubblico di trasporto in concessione, attribuite al  giudice
amministrativo dal regio decreto 8 gennaio 1931,  n.  148,  art.  58,
allegato A), appartengono  alla  cognizione  del  giudice  ordinario,
stante   l'implicita   abrogazione    per    incompatibilita',    sin
dall'operativita'   della   disposizione   originaria   del   decreto
legislativo 3 febbraio  1993,  n.  29,  art.  68,  della  persistente
giurisdizione del giudice amministrativo prefigurata dal citato  art.
58»,  in  base  a  molteplici  argomentazioni:  in  primo  luogo,  la
progressiva  privatizzazione  del  settore  dei  trasporti  pubblici,
realizzata con la trasformazione dell'azienda  delle  Ferrovie  dello
Stato prima in ente pubblico economico e successivamente in  societa'
per  azioni,  che  ha  marcatamente  evidenziato  gli   elementi   di
specialita' «residuale» del regime disciplinato dal regio decreto  n.
148 del 1931; inoltre un significativo momento del lungo processo  di
delegificazione di quest'ultima disciplina  e'  contrassegnato  dalla
legge 12 luglio 1988, n. 270, il cui art. 1, comma 2, prevedeva  che,
a partire dal novantesimo giorno dalla sua  entrata  in  vigore,  «le
disposizioni contenute nel regolamento allegato al  regio  decreto  8
gennaio 1931, n. 148, ivi comprese le norme  di  legge  modificative,
sostitutive od aggiuntive a  tale  regolamento  non  potevano  essere
derogate dalla contrattazione nazionale di categoria ed i regolamenti
d'azienda  non  potevano  derogare  ai  contratti  collettivi».   «La
tendenza  verso  un  graduale  avvicinamento  della  disciplina   del
rapporto di lavoro in questione a quella del rapporto privato  trovo'
il suo culmine nella legge 23 ottobre 1992, n. 421, la quale  delego'
il Governo alla "razionalizzazione e revisione  delle  discipline  in
materia di sanita', di pubblico impiego, di previdenza e  di  finanza
territoriale". Tale obiettivo fu realizzato - gia' con il  primo  dei
decreti delegati (decreto legislativo  3  febbraio  1993,  n.  29)  -
attraverso la graduale soggezione dei rapporti alle norme di  diritto
civile ed alla contrattazione collettiva e individuale, nonche'  alla
giurisdizione del giudice ordinario "salvi, per cio' che  attiene  ai
rapporti di pubblico impiego, i  limiti  collegati  al  perseguimento
degli  interessi  generali  cui  l'organizzazione  e  l'azione  delle
pubbliche amministrazioni sono indirizzati". 
    In particolare, quanto alla  materia  disciplinare,  il  generale
principio dell'assoggettamento alle norme contenute  nella  legge  n.
300 del 1970, art. 7, ed alla contrattazione collettiva fu realizzato
attraverso l'abrogazione del decreto del Presidente della  Repubblica
10 gennaio 1957, n. 3, articoli 100-123,  da  parte  della  legge  15
marzo 1997, n. 59. Gia' a  questo  stadio  dell'evoluzione  normativa
puo' dirsi che la generale attrazione del pubblico  impiego  -  salvo
specifiche eccezioni  -  nell'area  del  diritto  privato  e  il  suo
assoggettamento alla disciplina generale del lavoro privato, minavano
fortemente le ragioni della permanenza della specialita'  del  regime
disciplinare configurato dall'antica legge del 1931. Per altro verso,
l'avvenuta completa "devitalizzazione" dell'art. 58, ha  trovato  una
ennesima conferma nel decreto legislativo del 31 marzo 1998, n. 112 -
attuativo della delega disposta dalla legge 15 marzo 1997, n. 59, sul
conferimento di funzioni e compiti amministrativi  dello  Stato  alle
regioni ed agli enti locali  -  il  cui  art.  102,  lettera  b),  ha
soppresso  le  funzioni  amministrative  relative  alla  nomina   dei
consigli di disciplina. 
    In proposito,  non  puo'  non  convenirsi  con  quanto  sostenuto
dall'adunanza plenaria del Consiglio Stato, nel parere reso  in  data
19  aprile  2000  (richiamato  nel  giudizio   davanti   alla   Corte
costituzionale conclusosi con l'ordinanza n. 301 del 2004) nel  senso
che l'effetto abrogativo  della  norma  da  ultimo  citata  non  puo'
limitarsi alla caducazione  delle  sole  norme  procedimentali  sulla
nomina  e  composizione  dei  consigli  di  disciplina   e   che   la
soppressione dei consigli  di  disciplina  ha  confermato  l'avvenuta
abrogazione implicita delle norme dei  regio  decreti  che  postulano
l'operativita'  di  tali  organi,   inclusa   la   devoluzione   alla
giurisdizione amministrativa dei ricorsi avverso le  loro  decisioni.
Ma il processo di  privatizzazione  (rectius  "contrattualizzazione")
dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni aveva gia' in
precedenza registrato un decisivo  intervento  anche  in  materia  di
competenza a decidere delle relative controversie, con la conseguenza
che anche questo  versante  ha  contribuito  a  travolgere  l'assetto
complessivo del regio decreto del 1931; sottraendo sin da allora ogni
residuo spazio di operativita' dell'art. 58. Ed infatti -  come  gia'
si  e'  rilevato  piu'  sopra  -   il   trasferimento   dal   giudice
amministrativo a quello ordinario del contenzioso  dell'"ex  pubblico
impiego", gia', anticipato dalla legge  delega  del  1992,  e'  stato
introdotto, come regime generale, gia' con il decreto legislativo  n.
29 del 1993, art. 68, comma 1, ai sensi del quale venivano  "in  ogni
caso devolute al  giudice  ordinario,  in  funzione  di  giudice  dal
lavoro, le controversie attinenti al rapporto di lavoro in corso,  in
tema di 1) sanzioni disciplinari",  mentre  restavano  devolute  alla
giurisdizione del giudice amministrativo le controversie relative  ai
rapporti di impiego del personale di cui all'art. 2, commi 4 e 5. 
    Tale norma - destinata, peraltro ad operare "a partire dal  terzo
anno successivo alla data di entrata in vigore" del medesimo  decreto
e, comunque "non prima della fase transitoria  di  cui  all'art.  72"
(art. 68, comma 4) - e' stata riprodotta, con qualche  modifica  (non
rilevante ai  fini  che  interessano  in  questa  sede)  dal  decreto
legislativo n. 546 del 1993, art. 33, poi dal decreto legislativo  31
marzo 1998, n. 80, art. 29, quindi, dal decreto  legislativo  n.  387
del 1998, art. 18, e, finalmente dal  decreto  legislativo  30  marzo
2001, n. 165, art. 63 (testo unico del pubblico impiego). 
    Se   ne   puo'   trarre,   dunque,   la   conclusione   che   sin
dall'operativita'  della  disposizione  ordinaria  del   1993,   deve
ritenersi compiuta l'abrogazione implicita del regio decreto  n.  148
del 1931, art. 58, oggetto del  presente  giudizio,  proprio  perche'
l'indubbia portata generale della disposizione del 1993  non  avrebbe
consentito  piu'  al  giudice  amministrativo,  trascorso  l'indicato
periodo transitorio, di occuparsi di controversie di  lavoro  se  non
nei casi espressamente tenuti fuori dal processo  di  privatizzazione
(art. 3 del testo unico citato). A fronte  della  chiara  ed  univoca
evoluzione della disciplina, complessiva  del  rapporto  di  pubblico
impiego, diventa, d'altro canto piu' difficile  sostenere  ancora  la
specialita' del rapporto degli autoferrotranvieri. 
    Tale specialita', vistosamente sbiadita dai  numerosi  interventi
normativi appena rievocati, appare ormai in tutta  la  sua  anomalia,
proprio sul terreno della giurisdizione  poiche'  la  competenza  del
giudice amministrativo a decidere delle controversie relative a  quei
rapporti di  lavoro  trarrebbe  la  sua  ragione  proprio  in  quella
specialita' che invece, e' ormai venuta del tutto meno.  E'  pure  il
caso di aggiungere che non  sarebbe  comprensibile  sottovalutare  il
descritto processo evolutivo subito da una disciplina che - concepita
in epoca precostituzionale - non puo' piu' essere interpretata  senza
tener conto del mutato sistema di riferimento nel quale l'art. 58, e'
venuto  ad  operare,  nel  corso  di  oltre  settanta  anni:  con  la
conseguenza che non appare piu' possibile limitarsi a  prendere  atto
di  una  mancata  espressa  abrogazione  di  tale  norma.  ...»).  Di
conseguenza, possono dirsi superate anche tutte le questioni connesse
alla giurisdizione, gia' ritenute non fondate o  inammissibili  dalla
Corte costituzionale, anche con specifico riferimento  alla  sanzione
della retrocessione, di cui e' invece causa in questo processo, sulla
quale peraltro non consta alcuna espressa pronuncia del giudice delle
leggi circa la sua conformita', o meno, agli anzidetti principi della
Carta fondamentale (cfr. in part. Corte  costituzionale  n.  458  del
1992: secondo l'indirizzo  giurisprudenziale  vigente,  alla  stregua
dell'art. 6 della legge 12 giugno 1990, n. 146, per i  ricorsi  delle
organizzazioni sindacali volti ad ottenere non  solo  la  repressione
del  comportamento  antisindacale   ma   anche   la   rimozione   dei
provvedimenti concretanti il detto comportamento -  ad  es.  sanzione
disciplinare della retrocessione - la giurisdizione spetta al  T.A.R.
Pertanto, essendo il difetto di  giurisdizione  del  pretore  -  che,
adito  nel  caso   di   specie,   aveva   promosso   l'incidente   di
costituzionalita' - rilevabile «ictu oculi», la  sollevata  questione
doveva essere dichiarata manifestamente inammissibile. 
    V. parimenti Corte costituzionale n. 60 del 1994:  il  principio,
piu'  volte  ribadito,  per  cui   nel   giudizio   di   legittimita'
costituzionale in via incidentale,  una  questione  gia'  sottoposta,
come nel caso esaminato,  alla  Corte,  non  puo'  essere  nuovamente
sollevata dallo stesso giudice nel corso dello  stesso  giudizio  non
consente  di  pronunciarsi  una  seconda  volta  sulla  questione  di
legittimita' costituzionale, in riferimento agli  articoli  3  e  35,
primo comma della Costituzione, degli articoli 37, primo comma, n. 5,
e 44 del regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148,  nella  parte  in  cui
prevedono, per i lavoratori dipendenti di aziende  di  trasporto,  la
sanzione disciplinare della retrocessione. Ne' rilevava in  contrario
il motivo che, riguardo al merito della  questione  -  peraltro  gia'
dichiarata  dalla  Corte,  nel  precedente  giudizio,  manifestamente
inammissibile con l'ordinanza n. 458 del 1992,  perche'  proposta  da
giudice ordinario in materia devoluta, dall'art. 58  dell'allegato  A
del regio decreto n. 148, alla  giurisdizione  amministrativa  -  era
stato  prospettato  dal  giudice  rimettente,  secondo   cui   l'ente
convenuto,  nella  specie,  era  una  privata  societa'  per  azioni,
giacche' le norme del citato allegato A si applicano al personale dei
pubblici servizi di  trasporto  anche  se  esercitati  dall'industria
privata. 
    Cfr. ancora l'ordinanza n. 301 del  2004,  con  la  quale  veniva
dichiarata manifestamente  infondata  la  questione  di  legittimita'
costituzionale, sollevata in relazione agli articoli  3  e  24  della
Costituzione, dell'art. 58, allegato A) del regio decreto  8  gennaio
1931, n. 148, nella parte in  cui  risultava  all'epoca  devoluta  al
giudice amministrativo, anziche' a quello  ordinario,  la  cognizione
delle  controversie  in  materia  di  sanzioni   disciplinari   degli
autoferrotranviari,  essendo  rimasti  immutati  i  presupposti,   di
diritto e  di  fatto,  in  base  ai  quali  era  stata  ritenuta  non
censurabile,  sul  piano  costituzionale,  la  scelta   operata   dal
legislatore, nell'ambito della discrezionalita' spettategli  in  tema
di ripartizione della giurisdizione ordinaria ed  amministrativa,  di
non intervenire, modificandola, sulla  speciale  regolamentazione  di
cui e' causa, non essendo manifestamente irragionevole o  palesemente
arbitraria). 
    D'altro canto, la controversia di cui  e'  causa  nemmeno  appare
risolvibile mediante una interpretazione costituzionalmente orientata
della normativa  in  argomento,  stante  la  sua  inequivoca  portata
testuale, a fronte della  quale  l'organo  giudicante  e'  tenuto  ad
osservarla, salvo il  potere  di  sollevare  in  via  incidentale  la
questione d'illegittimita' costituzionale, come appunto nel  caso  di
specie. Per di piu' il legislatore, sebbene  con  eccentrica  tecnica
normativa,  ha   di   recente   mostrato   di   voler   ripristinare,
indistintamente, il vetusto regio decreto in questione, senza  quindi
nemmeno considerare l'evoluzione normativa stratificatasi in  materia
nel corso degli anni, secondo la corrispondente  sua  interpretazione
giurisprudenziale, con conseguente  residuale  vigenza  del  medesimo
originario testo del decreto, segnatamente in campo  giuslavoristico.
Infatti, il decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50 (Disposizioni urgenti
in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti  territoriali,
ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici  e  misure
per lo sviluppo),  convertito,  con  modificazioni,  dalla  legge  21
giugno 2017, n. 96, aveva disposto (con l'art. 27, comma 12-quinquies
- misure sul trasporto pubblico  locale)  che  «Il  regio  decreto  8
gennaio 1931, n. 148, la legge 24 maggio 1952, n. 628, e la legge  22
settembre  1960,  n.  1054,  sono  abrogati,  fatta  salva  la   loro
applicazione fino al primo rinnovo del contratto collettivo nazionale
di lavoro di settore e, comunque, non oltre un  anno  dalla  data  di
entrata in vigore del presente decreto». Tuttavia,  il  decreto-legge
20 giugno 2017, n. 91 (Disposizioni urgenti per la crescita economica
nel Mezzogiorno), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto
2017, n. 123 (in Gazzetta Ufficiale 12 agosto 2017, n. 188, in vigore
dal 13 agosto 2017) all'art. 9-quinquies (Modifica  all'art.  27  del
decreto-legge 24  aprile  2017,  n.  50)  ha  diversamente  disposto,
stabilendo che «1. All'art. 27 del decreto-legge 24 aprile  2017,  n.
50, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 2017, n. 96,
il comma 12-quinquies e' abrogato». 
    Deve, pertanto, ritenersi tuttora in vigore ed applicabile  nella
fattispecie qui in esame il regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148, che
nell'allegato A all'art. 37  elenca  «Le  punizioni  che  si  possono
infliggere agli agenti»: 1° la censura, che e'  una  riprensione  per
iscritto; 2° la multa, che e' una ritenuta dello  stipendio  o  della
paga; 3° la sospensione dal servizio, che ha per effetto  di  privare
dello stipendio o paga l'agente che ne e' colpito, per una durata che
puo' estendersi a quindici giorni od, in caso di recidiva  entro  due
mesi, fino a venti giorni; 4° la  proroga  del  termine  normale  per
l'aumento dello stipendio o della paga, per la durata di  tre  o  sei
mesi od un anno per  le  aziende  presso  le  quali  siano  stabiliti
aumenti periodici dello stesso stipendio o paga; 5° la retrocessione;
6° la destituzione. 
    L'art. 44 indica i casi in cui si  incorre  nella  retrocessione.
Stabilisce, inoltre, che per effetto della retrocessione  gli  agenti
vengono trasferiti al grado immediatamente inferiore; pero' quando il
provvedimento stesso  viene  applicato,  a  norma  dell'art.  55,  in
sostituzione della destituzione puo' farsi luogo eccezionalmente alla
retrocessione di due gradi; e  quando  trattisi  di  togliere  o  non
ridare le funzioni nelle quali fu commessa, la mancanza  da  punirsi,
oppure di rimettere gli agenti nelle funzioni  esercitate  prima  che
siano stati promossi al grado da cui debbano essere retrocessi, viene
assegnato quel  grado  che  risulta  necessario  secondo  la  tabella
graduatoria. 
    Per gli agenti, per i quali la retrocessione non e' possibile, si
fa luogo alla sospensione estensibile fino  a  trenta  giorni  con  o
senza trasloco punitivo cogli stessi effetti della retrocessione  per
quanto riguarda il disposto dell'art. 50 e dell'alinea seguente. 
    Alla retrocessione va sempre  aggiunta  la  proroga  del  termine
normale per l'aumento dello stipendio o paga, per la durata di tre  o
di sei mesi. 
    Dopo trascorso almeno un anno dalla retrocessione, gli agenti che
ne siano ritenuti meritevoli possono ottenere la reintegrazione,  per
effetto della quale e' restituita a ciascuno la qualifica  che  prima
rivestiva, fermi restando gli effetti  della  pena  accessoria  della
proroga, e  salva  la  facolta'  dell'azienda  di  farne  cessare  la
ripercussione, ai sensi del terzo e quarto  comma  dell'art.  43  (in
tema di proroga del termine per l'aumento dello stipendio: 
    3. «Ove pero' l'agente ne sia riconosciuto meritevole,  l'azienda
ha facolta' di togliere l'effetto della ripercussione, accordando  di
tre o sei mesi o di un anno, a seconda  della  proroga  inflitta,  il
periodo di tempo normale necessario  per  il  raggiungimento  di  uno
degli aumenti successivi». 
    4. «L'azienda puo' esercitare questa facolta' in ogni  tempo,  ma
non mai  prima  che  l'agente  punito  abbia  avuto  ritardato,  dopo
l'applicazione della punizione, il primo aumento spettantegli,  salvo
il caso che l'agente sia stato, prima di subire il ritardo,  promosso
di grado»). Infine, l'art. 55 dispone che le autorita'  competenti  a
giudicare delle singole mancanze possono, a seconda delle circostanze
e nel loro  prudente  criterio,  applicare  una  punizione  di  grado
inferiore a quella stabilita per le mancanze stesse.  Ed  al  secondo
comma cosi' recita: «Quando, per effetto di questo articolo, in luogo
della destituzione si  infligge  la  retrocessione,  la  proroga  del
termine normale per l'aumento dello  stipendio  o  della  paga  o  la
sospensione dal servizio, a tali provvedimenti puo' essere  aggiunto,
come punizione accessoria e con le norme dell'art.  37,  il  trasloco
punitivo». Da ultimo, il terzo  comma  stabilisce  che  le  punizioni
inflitte  possono  essere  condonate,  commutate  o   diminuite   per
deliberazione delle stesse autorita'  competenti  a  giudicare  delle
mancanze relative. 
    Come e' agevole desumere dal testo normativo, spicca evidente  il
carattere punitivo e militaresco della  sanzione  in  esame,  che  si
ripercuote  di  regola  a   tempo   indeterminato   sulla   qualifica
professionale conseguita dal lavoratore, salvo diverso apprezzamento,
meramente discrezionale da parte datoriale circa la meritevolezza  di
un ripristino, meritevolezza che per la sua vaga formulazione implica
una pura facolta' di concessione da parte  aziendale,  percio'  anche
difficilmente verificabile nella eventuale sede giudiziale in caso di
tutela in proposito invocata dal dipendente, ad ogni modo con effetti
duraturi sotto il profilo retributivo. 
    In tale contesto appare irragionevole la retrocessione, per  come
regolata dalla legge, che assume i connotati di una vera  e'  propria
pena, piuttosto che di una mera sanzione disciplinare, la  quale  non
trova analogo riscontro afflittivo, umiliante e degradante in diversi
trattamenti disciplinari riservati ad altri dipendenti civili,  quali
sono pure gli autoferrotranvieri al pari di  categorie  similari  (si
pensi soprattutto ai ferrovieri, personale viaggiante e di terra  del
gruppo Ferrovie dello Stato). 
    Ne' puo'  trascurarsi  il  retrivo  aspetto  etico-sociale  della
retrocessione in argomento, la quale sembra porsi in aperto contrasto
con  i  valori  solennemente  affermati  dall'art.  2   della   Carta
costituzionale (garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo, sia  come
singolo  sia  nelle  formazioni  sociali  ove  si   svolge   la   sua
personalita').  Parimenti,  dicasi  per  concerne  l'art.  35   della
Costituzione, segnatamente laddove al secondo comma e' affermato  che
la Repubblica cura la formazione  e  l'elevazione  professionale  dei
lavoratori,  formazione  ed  elevazione  che  appaiono  in  stridente
contrasto con il  carattere  afflittivo  e  tendenzialmente  a  tempo
indeterminato  della  retrocessione  in  commento.  Quest'ultima,  di
conseguenza, attesa la rilevata indeterminatezza cronologica e stante
l'anzidetta vaga possibilita' di ripristino, finisce anche per  poter
incidere negativamente sul diritto  alla  retribuzione  proporzionata
alla quantita' e qualita' del lavoro e in ogni  caso  sufficiente  ad
assicurare un'esistenza libera e dignitosa, nei sensi di cui all'art.
36 della Costituzione. 
    La stessa Corte costituzionale, del resto, pure  con  la  recente
sua pronuncia n. 194/18, depositata l'8 novembre 2018 e pubblicata in
Gazzetta Ufficiale il  successivo  giorno  14,  nella  sua  ricca  ed
articolata  motivazione  ha   richiamato,   confermandola,   la   sua
precedente giurisprudenza in materia, laddove ha  rilevato  anche  il
vulnus recato dalla previsione ivi impugnata agli articoli  4,  primo
comma, e 35, primo comma,  della  Costituzione:  «...  Alla  luce  di
quanto si e' sopra argomentato circa il fatto che l'art. 3, comma  1,
del decreto legislativo n. 23 del 2015, nella  parte  appena  citata,
prevede una tutela economica che  non  costituisce  ne'  un  adeguato
ristoro del danno prodotto, nei vari  casi,  dal  licenziamento,  ne'
un'adeguata  dissuasione  del  datore  di   lavoro   dal   licenziare
ingiustamente,   risulta   evidente   che   una    siffatta    tutela
dell'interesse del lavoratore alla  stabilita'  dell'occupazione  non
puo' ritenersi rispettosa degli articoli 4, primo comma, e 35,  primo
comma, della Costituzione, che tale interesse,  appunto,  proteggono.
L'irragionevolezza del rimedio previsto dall'art.  3,  comma  1,  del
decreto legislativo n. 23 del 2015 assume,  in  realta',  un  rilievo
ancor maggiore alla luce del particolare valore che  la  Costituzione
attribuisce al  lavoro  (articoli  1,  primo  comma,  4  e  35  della
Costituzione), per realizzare un pieno  sviluppo  della  personalita'
umana (sentenza  n.  163  del  1983,  punto  6,  del  Considerato  in
diritto). 
    Il «diritto al lavoro» (art. 4, primo comma, della  Costituzione)
e la «tutela» del lavoro «in tutte  le  sue  forme  ed  applicazioni»
(art. 35, primo comma, della  Costituzione)  comportano  la  garanzia
dell'esercizio nei luoghi di lavoro  di  altri  diritti  fondamentali
costituzionalmente garantiti. Il  nesso  che  lega  queste  sfere  di
diritti della persona, quando si intenda procedere  a  licenziamenti,
emerge nella  gia'  richiamata  sentenza  n.  45  del  1965,  che  fa
riferimento ai «principi fondamentali di liberta' sindacale, politica
e religiosa» (punto 4, del Considerato in diritto), oltre  che  nella
sentenza n. 63 del 1966, la' dove  si  afferma  che  «il  timore  del
recesso,  cioe'  del  licenziamento,  spinge  o  puo'   spingere   il
lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei  propri  diritti»
(punto 3, del  Considerato  in  diritto).  ...»  (cfr.  peraltro,  da
ultimo,  quanto,   nelle   more   della   pubblicazione   di   questo
provvedimento, ricordato ancora da questa Corte  -  VI  civ.  L,  con
l'ordinanza n. 10023 in data 8 gennaio-10 aprile 2019: «La privazione
totale delle mansioni, che costituisce violazione di diritti inerenti
alla persona del lavoratore oggetto di  tutela  costituzionale  (cfr.
Cassazione civile sez.  un.,  22  febbraio  2010,  n.  4063  resa  in
fattispecie di «sostanziale privazione di mansioni» in un rapporto di
pubblico  impiego  privatizzato),  non   puo'   essere   invece   una
alternativa al licenziamento. ...»).